“A Rio de Janeiro tutto
è grigio. Non c’è nulla solo bianco
o solo nero. Nulla è quello che sembra. E la
gente convive con questo mondo grigio come se fosse
normale.”
“Trafficanti, milizia e
polizia di Rio torturano nelle favelas” diceva
il titolo di un importante quotidiano di Rio de Janeiro,
appeso in un’edicola nei pressi dello studio dove
il regista di TROPA DE ELITE
ci ha rilasciato l’intervista. Come tanti altri
cariocas, José Padilha, 40 anni, non vorrebbe
più leggere notizie come questa. Dal 1997, quando
fondò la Zazen insieme all’amico Marcos
Prado, ha fatto in modo che tutti i suoi lavori –
per la qualità e per l’argomento affrontato
– cominciassero ad essere usati da giudici, avvocati,
studenti e altri gruppi, come strumento di discussione
e trasformazione sociale. José ha perso il conto
dei dibattiti cui ha partecipato. In tutti, e anche
in questa intervista, si è mostrato abbastanza
sicuro. “È molto ostinato”, spiega
Wagner Moura. “Sa quello che vuole ed è
il leader della troupe”, aggiunge Fernanda Machado.
Tra i numerosi progetti futuri, nazionali e stranieri,
Padilha dà la priorità alla produzione
del primo film di finzione diretto da Marcos Prado.
TROPA
DE ELITE è nato da Ônibus 174?
In quell’anno, il 2002, con tanti film sulla violenza
urbana, come City of God di Fernando Meirelles e O Invasor
(L’invasore) di Beto Brant, nell’ambiente
del cinema e della critica si diceva che l’argomento
era esaurito. Ma il nostro cinema mostrava solo il punto
di vista del trafficante, non parlava della polizia.
Non si riesce a spiegare la violenza senza capire la
polizia, che non è un dettaglio, è uno
dei fattori più importanti del problema. Allora
ho parlato con Rodrigo Pimentel e nel 2004 abbiamo cominciato
a scrivere questo film. Senza Pimentel il film non esisterebbe,
gran parte di quello che c’è nella sceneggiatura
viene dalla sua esperienza come poliziotto semplice
prima e poi nel Bope.
Come
avete fatto a vendere la sceneggiatura ai fratelli Weinstein?
Quando tradussi la sceneggiatura per mandarla a quelli
degli effetti speciali di Hollywood, se ne parlò
nell’ambiente e diverse società americane
mi fecero delle offerte. Chiusi con la Weinstein Company.
Mai una sceneggiatura ancora da completare era stata
venduta per questa somma in Brasile!
Tuttavia mancava un professionista per rifinire quello
che avevo fatto, così ho chiamato Bráulio
Mantovani che secondo me è il miglior sceneggiatore
brasiliano, uno dei migliori del mondo. Ha tagliato
60 delle mie 187 pagine. Ora è migliore, più
asciutta, completa. Figurati, prima raccontavamo tutta
la storia della polizia fin dall’inizio del Bope.
È
vero che la sceneggiatura è totalmente cambiata
in fase di montaggio?
Il film montato non corrisponde alla sceneggiatura.
Il lavoro di montaggio è stato molto importante:
io, Bráulio e Daniel Rezende abbiamo cambiato
il narratore del film e abbiamo riscritto la Voce F.C.
Il budget dei fratelli
Weinstein ha aiutato a riorganizzare il film? Per esempio,
hai aumentato il numero di location?
No. Non faccio il film in base al budget. Scelgo la
storia che voglio raccontare e poi vado a cercare i
soldi. La vendita della sceneggiatura ci ha dato tranquillità
e la certezza che saremmo riusciti a fare il film. Ma
non ha cambiato la dimensione del progetto, né
lo scopo, che è quello che volevamo raccontare.
Come
è stato passare dalla produzione di documentari
a quella di film di finzione?
Io e Marcos abbiamo una carriera organizzata. Avevamo
deciso di fare documentari e poi film di finzione. Ed
è andato tutto bene, il mio primo lungometraggio
è una grande produzione. Ma qui subentra un’altra
caratteristica della nostra impresa: mescolare coraggio
con incoscienza.
Un’altra
caratteristica della Zazen è quella di essere
polemica?
Si. Corriamo un grande rischio, perché se quello
che facciamo va male, va molto male. Ma ci prepariamo:
vediamo i film che ci sono sul mercato, conosciamo le
persone. Ho riunito buoni partner: il direttore della
fotografia Lula Carvalho, con cui ho fatto altri documentari
(come Fierce People, sugli indios Yanomami, ancora non
uscito); Bráulio (Padilha ha lavorato con lui
nella pre-produzione di “174”, lungometraggio
di Bruno Barreto). Pimentel lavora con me fin dai tempi
di Ônibus. È una troupe che ha una storia.
Ed
è stato così con tutte le persone legate
alla produzione?
JP – Chi si è occupato della produzione
è stata Lili Soárez, con cui ho fatto
l’università e che aveva lavorato con Lula
in Carandiru. L’unica che non conoscevo è
Fátima Toledo, ma visto che era il mio primo
film come produttore, sceneggiatore e regista, avevo
bisogno di lei. Volevo una preparatrice che desse al
lavoro, all’interpretazione, un feeling di documentario.
E Fatima è il Bope degli attori! Abbiamo diviso
il cast in quattro nuclei: i caveiras (poliziotti) del
Bope, gli agenti convenzionali, i trafficanti e la comitiva
dell’università. Ogni gruppo era composta
da attori professionisti e non. Nel caso dei trafficanti,
erano tutti ex soldati del traffico che oggi sono rappers.
Abbiamo addestrato i gruppi separatamente. L’idea
era quella di far passare gli attori per due setacci,
quello di Fatima e quello della realtà.
Pensi che abbia funzionato?
La tecnica di Fátima è controversa ma
funziona. Basta vedere i film che fa, come City of God.
È stata la scelta migliore per il tipo di riprese
che volevo fare: con la cinepresa in mano, e con gli
attori che non conoscevano la sceneggiatura.
L’attore
impara a memoria le scene?
No. Svolge per mesi interi un lavoro di improvvisazione
che tende verso una direzione. Chiesi a Fatima di non
seguire le riprese, così potevo cambiare il testo
sul momento, alcune volte ho cambiato intere scene.
Lula Carvalho e Wagner Moura mi hanno aiutato in questo.
Per esempio: la scena nella granata. Il testo non era
quello. Stavamo preparando le luci della scena, per
caso presi in mano il libro di un caveira, sfogliandolo
trovai quel testo assurdo che spiegava la parola “strategia”
in varie lingue. Ho chiuso il libro e ho detto: “Wagner,
questo ce lo dobbiamo mettere!”. In un attimo
abbiamo cambiato la scena. A volte c’erano scene
tra un attore e un non attore che non funzionavano.
Allora suggerivo all’attore di usare altre parole
e il non attore era obbligato a rispondere improvvisando.
E così migliorava l’interpretazione. Fernanda
Machado (Maria) mi ha aiutato molto, tappando i buchi.
Cercavo anche di fare in modo che André Ramiro
(PM Matias) le desse risposte diverse. E dato che Fernanda
è brava, si è creato un bel clima di improvvisazione.
Per di più, considerato che anche i nostri operatori
di macchina erano ben allenati, siamo riusciti a fare
intere sequenze sul momento, come John Cassavetes.
Hai
sollevato molte polemiche e non risparmi neanche le
ONG …
Il film è sull’ipocrisia che si vive a
Rio de Janeiro, che è asservita alla violenza.
Qui è tutto incastonato: voglio aiutare i bambini
di una favela, per farlo devo diventare amico del trafficante.
Per fare una cosa giusta ne devo fare una sbagliata;
il poliziotto onesto vuole rimettere in piedi il Battaglione,
ma i soldi se li deve procurare sulla strada, perché
la polizia non ne ha. Voglio essere un poliziotto del
Bope per far valere la legge, ma devo uccidere perché
la gente è armata. È tutto mezzo grigio,
niente è nero o bianco. Tutti convivono con questo
mondo grigio come se fosse normale. Questa è
la cronaca del nostro quotidiano, la guerra che viviamo.
Scegliere
come narratore un poliziotto del Bope, non ha necessariamente
significato aderire al punto di vista del Bope?
Ho scelto un punto di vista che è simile a quello
di Pimentel e di altri poliziotti. C’è
molto cinismo nella polizia. Loro dicono: “il
suo film è meraviglioso, ma facciamo finta che
la polizia non sia così perché io sono
della polizia”. Il mio film è sull’incompatibilità
tra diversi gruppi sociali. Nel film, la polizia convenzionale
crede che corrompere sia normale, dice: “non vado
a fare una sparatoria con un emarginato armato fino
ai denti per un salario di 500 reais al mese”.
È poco, certo, ma per questo devono essere corrotti?
Secondo loro il poliziotto del Bope, che sale al morro
per uccidere il trafficante, è un idiota. La
PM canta una versione debosciata del grido di guerra
dei componenti del Bope che dice “faca na caveira
e nada na carteira [coltello nella caveira e niente
nel portafogli]”. Per il Bope, che non accetta
la corruzione, l’agente convenzionale è
quasi un nemico. Lo studente e l’appartenente
alla ONG convivono con i trafficanti. Il Bope no, li
combatte. Per lo studente poi, fumare l’erba è
normale, non pensa che sta finanziando l’arma
che spara al poliziotto. Il conflitto tra le diverse
etiche di questi gruppi sociali e l’ipocrisia
è che sono entrambi asserviti alla violenza.
Il film guarda questa situazione dal di fuori, dall’ottica
di una persona intelligente che ha capito e che vuole
venirne fuori. Questo non significa schierarsi con Nascimento.
Il film vuole semplicemente dire: “guarda cosa
stiamo vivendo. Riflettiamoci”.
La troupe è stata
assaltata e sequestrata. È stato il momento peggiore
della produzione?
Il film ha dovuto fare i conti con la realtà
di cui parla, è stato vittima del suo argomento.
Quando hanno sequestrato il furgone con dentro alcuni
membri della troupe e le armi scenografiche, nessuno
poteva sapere cosa sarebbe successo, e siamo andati
avanti così per oltre due ore. Per me è
stato un momento di enorme tensione. La mia troupe era
stata portata via da banditi armati di granate e fucili
AR-15! Quando tornarono illesi, grazie a Dio, è
venuta fuori un’altra preoccupazione: “Come
andiamo avanti?”. In primo luogo senza le armi.
E poi, visto che la polizia era salita al morro per
fare le indagini, quella location era inutilizzabile.
La troupe insicura chiedeva garanzie. Ho spiegato che:
“qui siamo a Rio di Janeiro e non abbiamo garanzia
di nulla”. Beh, a quel punto c’è
stato uno sforzo della troupe che di fronte a una simile
pressione è rimasta coesa, ed ha rischiato perché
ha capito l’importanza del film. Molti colleghi
mi hanno detto che mai una troupe cinematografica brasiliana
era stata sottoposta a una pressione così forte.
Quelle persone sono rimaste lì, decise e forti,
mi hanno sostenuto accettando di andare in location
che nemmeno la produzione del film raccomandava. Hanno
avuto molto coraggio. Ho cominciato TROPA con la seconda
migliore troupe del cinema brasiliano e ho terminato
con la migliore.
Hanno lasciato in molti
il set? Avete adottato precauzioni di sicurezza?
Se ne sono andati in pochi e già avevamo i giubbetti
antiproiettile. Consideravano il film pericoloso, ma
questo non li sminuisce. È davvero una pazzia,
perché è una situazione incerta …
tutto è ipocrisia in questa città, e la
produzione del film non poteva non esserlo. Avevamo
avvertito l’Associazione dei Residenti che avremmo
fatto le riprese, sapendo che avrebbe fatto gli accordi
necessari con i trafficanti. Quando c’è
stato il furto delle armi, i trafficanti delle altre
favelas, che sarebbero state le nostre successive location,
dicevano: “la polizia ha invaso il posto dove
stavate girando prima, perché non dovrebbe invadere
anche qua?” Rafael Salgado, il mio primo assistente
di regia, è stato fondamentale nella riorganizzazione
della produzione. Una cosa surreale. Non ho dormito
per 5 giorni e le riprese si sono dovute fermare per
10!
La PM non vi ha impedito
di lavorare?
La PM ha fatto molta resistenza al film. In genere si
chiede un “nullaosta” al Battaglione della
zona dove devi fare le riprese, è una semplice
lettera in cui chiedi il permesso, qualcuno la legge
e mette il timbro di approvazione. Nel nostro caso,
non riuscivamo ad aver questo documento. Mandavano tutto
al comando centrale di polizia. Ho dovuto incontrare
un sacco di colonnelli che facevano una specie di inquisizione.
Chiedevano: “che film è?” poi si
giravano verso gli altri PM e dicevano: “prendete
nota di tutto quello che dice Padilha”.
Hai dovuto far leggere
la sceneggiatura?
Ho dovuto mandare le sinossi. E anche questo con ipocrisia.
Mi dicevo: “in Brasile non esiste la censura.
Quel che deve fare la PM è soltanto valutare
se è sicuro girare lì o no”. Ma
intanto producevano documenti interni che valutavano
i contenuti del film. C’era una minaccia di censura.
E come hai ottenuto le
location?
Alla fine le persone illuminate della PM hanno avuto
la meglio su quelle poco illuminate. Ho perso molto
tempo, ho avuto un sacco di impicci che un film normale
in genere non ha. Ma quando è arrivato il nullaosta
dall’alto, la polizia ha iniziato a collaborare
con noi. La resistenza iniziale è finita quando
hanno capito che il film non era l’adattamento
del libro. Ho dovuto far vedere le registrazioni della
sceneggiatura e del libro, con le date, per dimostrarlo.
Quali
altre questioni ti hanno distolto dalla regia del film?
Abbiamo avuto diversi momenti difficili. C’è
stata una sparatoria mentre stavamo chiudendo la produzione
al Morro dos Prazeres. E in mezzo c’era la mia
troupe, un tizio per poco non è stato colpito.
È stato difficile. Non solo per la gente del
morro, tutte queste cose intaccavano la fiducia della
troupe che cominciava a dire “se torno in quel
posto mi ammazzano”. E adesso questa faccenda
della pirateria, devo occuparmi di questo invece di
lavorare alla chiusura della produzione!
Immaginavi
che il tuo film avrebbe assunto queste dimensioni?
JP – Faccio film per provocare la trasformazione
e sollevare dibattiti, a che serve fare altri tipi di
film? Non dico che i film d’evasione non abbiano
valore, ma la mia motivazione non è quella di
guadagnare soldi, è narrare una storia ben raccontata.
Sto facendo un film che rispecchia la realtà.
Il vertice della polizia ha già dato una risposta
a Pimentel riconoscendo che il film dice la verità.
La mia battaglia è contro l’ipocrisia.
E non ho nessun problema ad andare contro l’ipocrisia.