Qual è stata la genesi
di questo film?
Dopo SNOWBOARD, il mio primo film, volevo suicidarmi.
Il mio amico sceneggiatore Stéphane Malandrin mi
disse: “Piuttosto, gira un film.” Ho cercato
i finanziamenti in Francia, ma mi guardavano tutti come
se fossi Django, il cavaliere nel film di Corbucci che
fugge dal suo cimitero e si trascina la bara dietro di
sé. Ho scoperto che esiste un paese che accoglie
i rifugiati artistici: il Belgio. Vi sono fuggito con
mia moglie e i miei figli, prima che mi rimettessero nella
bara. E fu a Bruxelles che nacque il film.
Come è entrato in
contatto con La Parti ?
Stéphane Malandrin, un altro rifugiato artistico
a Bruxelles, co-sceneggiatore e co-regista di Où
Est la Main de l’Homme Sans Tête insieme a
suo fratello, mi ha presentato Vincent Tavier, uno dei
co-fondatori di LA PARTI. Volevo davvero conoscere Vincent,
perché sapevo che era stato lui a permettere a
Benoît Delépine di girare il suo primo film,
Michael Kael contre la World News Company, che attirò
su di sé le solite batoste della critica parigina.
In effetti dopo Aaltra, Benoît Delépine e
Gustave Kerven sono spesso presentati come registi belgi.
Vincent ha un grande talento nel capire ciò che
le persone dovrebbero fare e soprattutto ciò che
non dovrebbero fare. Calvaire di Fabrice Du Welz è
un altro ottimo esempio di un’eccellente produzione
di LA PARTI.
Lei crede che il suo film
sia un’eccellente produzione di La Parti?
Diciamo che ho trovato che Vincent Tavier e i suoi due
associati, Philippe Kauffmann e Guillaume Malandrin, hanno
un approccio alla produzione che si adatta bene a me.
E qual è stato questo
approccio?
Vincent Tavier aveva partecipato alla leggendaria –
almeno in Belgio – avventura della produzione di
Il cameraman e l’assassino. Da allora, ha sempre
voluto continuare a fare la stessa cosa: girare film con
uno spirito libero a livello finanziario, morale e artistico,
senza dipendere da nessuno per qualsiasi cosa, facendosi
carico dei rischi, ma lasciando il segno nella loro epoca.
La gente a volte lo dimentica, ma anche lo stile è
una questione di produzione. È bello trovare dei
mezzi di produzione che siano adattati alle proprie ambizioni
e alla propria immaginazione.
Quali sono esattamente i
mezzi di produzione per Kill Me Please?
Molto pochi; troppo pochi perché dica la somma
senza rischiare che si sottovaluti il film. In ogni caso,
avevamo un’equipe minuscola, un periodo di riprese
di tre settimane e alcuni “attori star” che
avevano una quota di partecipazione nel film. I finanziamenti
di Didier Brunner di Les Armateurs (Appuntamento a Belleville)
e di Jean Labadie di Le Pacte sono stati fondamentali.
Aurélien Recoing,
Benoît Poelvoorde, Bouli Lanners, Virginie Efira
e addirittura Saul Rubinek, come c’è riuscito?
L’amicizia ha giocato un ruolo importante. Il ruolo
principale.
Questo è un film
sul suicidio ?
Sono sempre stato affascinato dai suicidi di massa, come
quello che è avvenuto in Giappone. Pensavo a una
trama su questo tema quando Virgile Bramly mi ha detto
che c’era un’associazione benefica in Svizzera
chiamata Dignitas che aveva come scopo quello di fornire
assistenza medica per l’eutanasia. Ne ho parlato
con Stéphane Malandrin, lo sceneggiatore con cui
collaboro di solito, che ha adorato questa idea. L’incontro
successivo con Vincent Tavier e la produzione La Parti
è stato un elemento decisivo.
È un film sulla clinica
Dignitas in Svizzera?
No. Innanzitutto, si dovrebbe tenere in considerazione
che la Dignitas non è esattamente una clinica.
La morte a volte avviene nella stanza da letto di un appartamento,
a volte in una camera d’albergo, a volte anche in
una macchina, perché hanno problemi con le autorizzazioni.
Volevo immaginare come sarebbe stata la clinica ideale
per l’eutanasia assistita. Una clinica in cui andresti
a morire con un bicchiere di champagne in mano, in un
posto meraviglioso, con la possibilità di far esaudire
il tuo ultimo desiderio. È un film sull’anticipazione,
che inventa un paese in cui questa clinica è diventata
ufficiale, riceve fondi dallo Stato, ha obblighi di prestazione
e regole terapeutiche e amministrative severe.
Si sta divertendo con un
tema serio?
Il mio film di riferimento è La Grande Abbuffata
di Marco Ferreri, che era stato contestato a Cannes nel
1973, eppure affronta la condizione umana così
bene, con ironia e umorismo dark. Quello che sciocca del
film di Ferreri non è tanto l’eccesso del
banchetto di cui godono i personaggi, quanto la serietà
con cui lo fanno. Certo, si riempono fino a scoppiare,
ma lo fanno seriamente, con grande concentrazione. Il
film diventa divertente per l’eccesso di serietà,
perché spinge i confini di una logica inevitabile
eppure quasi ossessiva: mangiamo fino a morire. Il cameraman
e l’assassino segue la stessa logica: guardiamo
la televisione fino a morire.
Allora qual è il
tema del suo film? “Siamo svizzeri fino a morire?”
Potrebbe essere [ride]. No, il film non riguarda la Svizzera…
O forse sì, alla fine la riguarda, se si considera
che la Svizzera è – nella coscienza collettiva
– la terra dell’igiene, della pulizia e della
normalità. Un paese che vuole controllare tutto
così bene che tenta di controllare l’incontrollabile;
che vuole imporre l’ordine su ciò che non
può essere ordinato, per esempio dedicando un posto
ai drogati nel bel mezzo della città, o permettendo
a una beneficienza come la Dignitas di gestire, ai confini
della legge, il suicidio delle persone. In effetti è
di questo che parla il film: il desiderio di controllare
l’istinto di morte alla fine ci ucciderà.
Viviamo in un mondo in cui occorre “mantenere ordine
e pulizia”. Quindi in conclusione, “Manteniamo
l’ordine fino a morire !”
Il suo film è una
farsa?
La farsa presenta una forte dose di volgarità e
buffoneria che non è presente in questo film. Anzi…
no, non è vero, forse ha ragione lei. In questo
film la farsa in effetti esplode sulla scena. Le finestre
della clinica si aprono all’improvviso come se ci
fosse un vento intenso, un tornado e l’istinto di
morte esplode in faccia all’uomo che vuole controllarlo.
È un film splatter?
Affatto ! Non è neanche un film d’azione.
È una commedia dark sul modo in cui la nostra società
vuole gestire la morte degli altri. Se lasciassimo fare,
le multinazionali o i principali gruppi industriali, probabilmente
integrerebbero unità per l’eutanasia medicalmente
assistita nei loro reparti delle risorse umane. Il film
tratta anche della nostra illusione di una morte pulita.
OLIAS
BARCO – regista, sceneggiatore, produttore
Olias Barco abbandona la scuola a 15 anni e alza la cornetta
per tentare di sfondare in un mondo che non gli appartiene:
quello del cinema.
A 21 anni, dopo vari anni di apprendistato, decide di
produrre e dirigere il suo primo cortometraggio, Clin
d’oeil. Il film si aggiudica il Silver Award al
Houston Film Festival e il premio del pubblico al Brest
Festival.
Nei 3 anni successivi, dirige altri tre cortometraggi,
poi incontra Aurélien Recoing, con cui gira nel
1994, Poubelles. Il film viene selezionato per la Settimana
della Critica al Festival di Cannes e si aggiudica il
Golden Rail come miglior cortometraggio.
Dopo aver passato un periodo a Los Angeles su invito del
produttore di Ray Charles per girare alcuni video musicali,
Olias Barco dirige nel 2002 il suo primo lungometraggio,
Snowboard, prodotto da Benoît Jaubert per la compagnia
Nord-Ouest. La visione di Olias Barco per il suo film
di debutto è quella di un “manga a grandezza
naturale in cui il bene e il male si confrontano”.
Decide poi di andare a vivere a Bruxelles e di tornare
allo stile dei suoi cortometraggi: umorismo, ironia e
follia.
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