È passato meno
di un anno da ”Cambio d’indirizzo”,
il nuovo progetto quindi si è sviluppato molto
rapidamente. Lei è un regista che lavora velocemente
o si è trattato di un’eccezione?
Ho avuto soprattutto
la fortuna di trovare gli attori che speravo rapidamente,
ed anche il finanziamento.
Io sono di natura piuttosto impaziente e mi piace lavorare
velocemente. Questo mi aiuta soprattutto a distinguere
ciò che mi sembra essenziale.
L’industria cinematografica
è molto più precaria rispetto all’industria
musicale o all’editoria. Un film dipende molto
di più dal successo…
Si. Se è
stato possibile fare rapidamente “Solo un bacio,
per favore”, è anche perché abbiamo
beneficiato del successo di “Cambio d’indirizzo”.
Tra “Vénus et Fleur” e “Cambio
d’indirizzo” erano passati più di
due anni ed il produttore ed io eravamo decisi a non
aspettare più così tanto per riunire tutti
i mezzi di cui necessitavamo per fare un nuovo film.
Preferivate produrre un
film senza tutti i mezzi, ma più rapidamente?
Più o meno.
Preferisco fare un film, anche se con pochi mezzi, piuttosto
che non farlo.
Da dove è venuta
l’idea di “Solo un bacio, per favore”?
Si trattava di un vecchio progetto?
No, l’idea
mi è venuta circa due anni fa e la sceneggiatura
è stata scritta abbastanza velocemente. I miei
film preferiti, e non penso di essere l’unico,
sono quelli che trattano storie in cui i desideri giocano
con i sentimenti.
Come idea di base ho usato un certo numero di situazioni
diverse, a volte buffe, altre volte romantiche; ma soprattutto
la voglia di fare un film in cui ci fossero un gran
numero di scene in cui venivano espressi dei desideri.
È un po’ banale, ma è così.
L’idea di partenza era di fare un film sulle conseguenze
dei “baci dati senza pensare alle conseguenze”.
Quindi, detto in altro modo, di riflettere se esistono
veramente dei baci che non portano a conseguenze!
Avevo in mente la storia di un ragazzo che va a trovare
la sua migliore amica. Lui è in astinenza da
sesso e le chiede se lei possa aiutarlo. Nonostante
lei sia sposata e innamorata di suo marito, accetta.
C’è qualcosa che mi incuriosisce particolarmente
nelle storie di desiderio. Spesso ci sono due persone
che si desiderano e in qualche modo una terza persona
che ne subisce le conseguenze.
L’intento finale del film è dunque una
sorta di riflessione utopistica sul “come vivere
un proprio desiderio cercando di proteggere anche colui
che ne potrebbe soffrire”. Da qui nasce l’idea
di mostrare le strategie messe in atto dai personaggi
per non far soffrire l’altro.
Ciò che m’interessa in questa situazione
è il dilemma che essa implica: come essere una
persona buona, civile, che voglia concedersi di vivere
i propri desideri, una delle cose più piacevoli
della vita, ma che allo stesso tempo non vuole fare
del male a nessuno. Si tratta in fondo di un soggetto
moralistico.
In alcuni punti la storia
di Nicolas e di Judith sarebbe potuta bastare ad impostare
il film. Ma lei ha avuto quest’idea del racconto
nel racconto, di effetto “specchio”. Per
quale motivo?
L’idea che
una donna si trattenga dal baciare un uomo che desidera
a causa di una storia che le è stata raccontata,
e che a sua volta lei la racconti a quest’uomo,
mi piaceva molto per diverse ragioni. Innanzitutto perché
credo che le storie che abbiamo sentito, o letto, o
visto al cinema, abbiamo molti effetti. Esse partecipano
molto ai nostri giudizi morali e di conseguenza influenzano
i nostri comportamenti. Trovavo molto divertente il
fatto di filmare l’influenza che un storia raccontata
può avere sul comportamento di un personaggio.
Ma allo stesso tempo, ciò che mi interessava
era osservare quanto il racconto di una storia fatto
ad un’altra persona possa modificarne le impressioni
iniziali. E poi queste storie che si aprono e chiudono
nel corso del racconto, come dei cassetti, mi divertivano
molto, e mi hanno permesso di dare ritmo al racconto
dando anche un senso di libertà.
Si ha l’impressione
che fino a lì fosse principalmente la sceneggiatura
a lavorare su questa dimensione, mentre questa volta,
forse in modo ancora più pronunciato che nei
suoi film precedenti, l’immagine, la composizione
del quadro o la scelta dei colori e della loro corrispondenza
diano altri indizi, prolunghino quest’idea di
gioco…
Con Laurent Desmet,
direttore della fotografia, abbiamo fatto molta attenzione
al ritmo del racconto prima di parlare di scelte visive.
Abbiamo discusso in termini di varietà, di contrasto
o di ripetizione, per dare quasi un ritmo “musicale”
alla storia. Lavorando molto sui rapporti personaggi/sfondi
e sulla relazione degli ornamenti tra essi. È
a partire da questo che penso si costruiscano dei giochi
di corrispondenze. Ma dietro queste corrispondenze non
c’è nessun significato nascosto, esse cercano
soprattutto di creare delle risonanze, di trasportare
il pensiero e gli occhi, il piacere e la complicità.
C’è una certa
continuità nei suoi film, l’idea di una
perfetta armonia. I suoi personaggi sono sempre legati
da alcuni dettagli, a volte molto discreti: come un
mestiere, un oggetto, i colori degli abiti…
Credo che il cinema
serva a darci un’idea del mondo, un’idea
dell’uomo. Ma il mondo e l’uomo sono due
cose talmente complesse e infinite per la mente umana
che bisogna semplificarle.
Semplificare per me significa creare delle forme riconoscibili.
La grande difficoltà consiste nel semplificare
tutto tenendo conto della complessità…
Se si dicesse di lei che
è un regista “letterario”, sarebbe
qualcosa di riduttivo, che la scandalizzerebbe, un controsenso?
Letterario? Direi
piuttosto della parola. Credo che sia la parola a ritmare
un film, per la maggior parte. Nella parola, ci sono
le voci, c’è il ritmo delle cose che vengono
dette, e dunque come conseguenza quello del film. Da
cui nasce anche il mio amore per le commedie classiche
italiane e americane, in cui si parla molto. Non ci
si ricorda sempre dei dialoghi, ma c’è
il piacere di essere stati trasportati nella parola.
L’altro aspetto della parola, per me, è
che è lei ad ostentare il desiderio.
È vero che i suoi
personaggi sono spesso alla ricerca della parola giusta?
L’uomo si
avvicina ad una donna che desidera, in gran parte con
l’aiuto della parola. È così che
cercherà di scoprire il desiderio femminile e
di esprimere il proprio. Ed è molto complicato!
Gran parte della suspense del film deriva dalla parola.
Sfortunatamente in certi manuali di scrittura del copione,
si insegna che bisogna far dire la maggior parte delle
cose al personaggio nel minor numero di parole possibile.
Lo trovo ridicolo. Più si parla, più ci
si espone all’altro, allo sguardo, alla critica,
più di conseguenza ci si mette in scena, si cerca
un modo per presentarsi. Ed è in questo “come”
che risiede gran parte del gioco!
In fondo, è un
modo molto semplice di descrivere i dubbi, le inibizioni
e le angosce dei personaggi senza dover appesantire
la sceneggiatura. Nel loro modo di cercare la parola,
di porsi, si capisce ciò che cercano di essere,
ciò che hanno paura di diventare o non diventare…
Ecco! E ciò
che possono dire ci porta ancora più lontano.
Più i personaggi parlano, più ci si può
domandare: dicono la verità? Lo pensano veramente?
È ciò che al cinema rende i volti e gli
sguardi così avvincenti.
Si sa sempre cosa fanno
i suoi personaggi nella vita, hanno sempre una realtà
sociale, anche se essa non interviene direttamente nel
racconto. Per quale motivo?
Stranamente, trovare
la professione dei miei personaggi è ciò
che mi fa perdere più tempo nella stesura del
copione. Davvero, è la cosa più difficile.
A mio parere ciò evita una certa forma di evanescenza.
E poi credo che conoscere la professione di qualcuno
ci racconti qualcosa di lui. È una porta che
si apre.
Cos’ha fatto in
modo che lei vedesse Nicolas come professore di matematica?
Oh! Inizialmente
l’ho visto in diverse occupazioni. Credo che all’inizio
fosse architetto. È dopo che è arrivata
l’idea del professore di matematica, per dimostrare
che si trattava di qualcuno che faceva parte del ragionamento
astratto… è il fatto di creare delle ipotesi
e di voler utilizzare gli individui come delle varianti.
È senza dubbio ciò che lo spinge a chiedere
alla sua migliore amica di aiutarlo nella sua richiesta.
Inoltre anche Judith si trova in un settore scientifico
anche se più concreto dato che si tratta della
ricerca.
Judith lavora nel campo
della sperimentazione, il che descrive molto bene il
personaggio…
È vero.
Entrambi avranno una strategia molto matematica. Per
tornare a Judith, volevo qualcuno di abbastanza concreto.
Dopo tutto, se lei va a letto con Nicolas, è
soprattutto per aiutarlo, anche in nome della sperimentazione,
dato che si tratta innanzitutto di una ragazza decisa,
con una razionalità stabile, affatto stravagante
e che quindi non lo fa per capriccio. Lei inoltre è
molto imbarazzata all’idea di innamorarsi di Nicolas.
C’è qualcosa nella relazione che non funziona.
Il fatto che lei si senta in parte a disagio nella situazione
si rivela più forte che se lei fosse stata un’artista.
Quindi, in questa storia
lei ha affiancato la letteratura alla matematica…
ma anche altre Arti, a cominciare dalla pittura. A più
riprese, lei inquadra i suoi personaggi da una parte
o dall’altra di un ritratto (Schubert vicino a
Judith, un’ altra tela al museo, nella camera
d’albergo…)
Infatti. Io ho
l’impressione che ovunque si vada ci siano sempre
dei ritratti, dei quadri… E non posso fare a meno
di trovare sempre strani questi ritratti di persone
che appartengono al passato e che continuano a guardarci;
o ancora, queste rappresentazioni che troneggiano nella
maggior parte dei saloni borghesi che sono messe lì
per evocare e suscitare desideri sensuali. Noi in generale
non prestiamo loro molta attenzione, ed io nel film
mi diverto a metterlo in evidenza.
Mozart, Tchaikovski, Schubert,
anche la musica è estremamente importante…
Lei l’aveva in mente al momento della stesura
del copione?
No, perché
per come sono fatto mi riesce molto difficile poter
anticipare la colonna sonora mentre scrivo la sceneggiatura.
D’altra parte, una volta iniziato il montaggio,
con Martial Salomon, il montatore, abbiamo iniziato
a stabilire le musiche abbastanza rapidamente. Abbiamo
provato prima con Schubert per via della sua relazione
con il copione, poi è arrivato Tchaikovski e
la coppia ha funzionato subito. Malgrado una breve parentesi
con Mozart ed una parte introduttiva con Dvorak. Non
ho nessun “sistema” per quanto riguarda
l’uso della musica. C’è quella che
c’è, un po’ come l’aria che
respirano i personaggi. Una specie di musica d’atmosfera,
anche se è un po’ sprecata… Poi,
ci sono musiche che accompagnano l’azione e altre
che possono commentarla. L’importante è
non sbagliarsi.
I suoi primi due film
erano piuttosto “estivi”. In questo si ha
l’impressione di un’atmosfera più
autunnale, più malinconica…
I miei primi due
film erano girati a Marsiglia, gli ultimi due in gran
parte a Parigi. “Laissons Lucie faire” e
“Venus et Fleur” erano dei film in esterni
e la loro tonalità derivava dalla luce, mentre
qui viene dalla stagione, dagli interni.
C’è anche
una certa serietà. Sotto l’apparenza della
leggerezza lei evoca il tradimento, il fatto di fare
soffrire l’altro…
È vero.
Si può dire che nel film, ci siano conseguenze
più… conseguenti.
In termini di messa in
scena, la grammatica apparentemente è molto semplice
e molto precisa. Il taglio era stato previsto in anticipo?
Ho una certa idea
del taglio da dare alla storia in anticipo, ma più
che altro ho un’idea della tonalità del
film, ovvero la preoccupazione di essere alle volte
molto semplice, altre più vario. Il taglio non
è affatto fisso poiché dipende soprattutto
dagli attori e dalle sfumature che non si conoscono
per forza in anticipo. Più faccio film, più
sono convinto che la maestria della messa in scena non
consista nel prevedere tutto ciò che ci sarà
sullo schermo. Penso persino che sia tutto il contrario.
È un lavoro di ascolto e di disponibilità.
Bisogna vedere gli attori, vedere lo scenario in cui
ci si trova e cercare semplicemente di avvertire dove
e come le cose possano raccontarsi nel miglior modo.
Il burlesco interviene
spesso nel suo film. Per esempio nella scena in cui
lei si sbarazza della biancheria intima prima di passare
all’azione con Judith. Tutta la goffaggine e l’emozione
del personaggio emergono in quel momento…
Credo che sia
stata proprio la goffaggine ad avermi fatto amare il
cinema. Essa racconta una moltitudine di cose. Amo i
grandi eroi maldestri come Pierre Richard. Il maldestro
è colui che prova ad adattarsi a situazioni nuove
e che allo stesso tempo viene sopraffatto da tutto ciò
che accade. È una dimensione nella quale mi immergo,
che mi tocca profondamente. Per me i più grandi
eroi del cinema non sono Superman ma i Buster Keaton,
Charlie Chaplin o Jacques Tati. Quelli che cadono e
che si mostrano senza mai essere adirati con la vita
o nessun altro. Sono senza amarezza. I grandi maldestri
hanno questa bellezza dei grandi eroi drammatici, questa
facoltà di resistere e di continuare. Per quando
riguarda il film, ho provato a fare un film sentimentale
che fosse talora buffo, strampalato, sorprendente, ma
anche romantico. La maggior parte degli attori hanno
nature e sfumature di recitazione diverse. Suppongo
che Frédérique Bel ed io, dopo “Cambio
d’indirizzo”, spaziamo un po’ tra
Stefano Accorsi, Julie Gayet o Virginie Ledoyen.
La direzione degli attori
prolunga la parte di ciascun personaggio. Si ha la sensazione
che ciascuno degli attori sia diretto in un modo specifico.
Assolutamente,
ci sono attori ai quali non dico nulla e altri invece
con i quali devo fare settimane di preparazione. Non
vi è alcuna regola stabilita. Ho piuttosto la
tendenza a seguire i desideri dell’attore. Prima
di tutto perché amo gli attori che propongono,
che hanno un ruolo attivo. Allora mi adatto in funzione
di ciascuno. Ho avuto un’enorme fortuna a lavorare
con gli attori di questo film. Perché in un certo
senso sono loro che si sono proposti con le loro idee
e i loro personaggi. Io sono stato ad ascoltare ed a
scegliere ciò che ritenevo giusto tenere e ciò
che era in più.
La musicalità del
suo cinema e della sua scrittura è già
stata accostata in precedenza. E’ lo stesso per
la scelta del casting? Si è fatto come si fa
generalmente in un’orchestra o ciascuna scelta
è determinante per quella successiva?
Assolutamente!
Sono dei colori, delle sonorità che devono rispondersi
a vicenda, che si devono ripetere o no. E’ tutta
una questione di contrasto, di sonorità, di colori,
ma allo stesso modo di storia. Perché ogni attore
si presenta con una storia. Ci si immagina infatti che
al casting si scelgano gli attori che ci sembrano essere
i migliori, ma non è assolutamente così.
Ciascun attore, a seconda della propria personalità,
propone una lettura nuova del film. Sarebbe interessante
allora rifare lo stesso film con degli attori diversi.
Alcuni proporranno delle cose nuove, altri racconteranno
delle altre storie. A teatro è possibile farlo!
Trovo che bisognerebbe fare molti più remake
nel cinema.
Il fatto che lei recita
nei suoi stessi film è un modo di fare economia
sul budget o al contrario di dare un valore aggiunto
all’opera?
All’inizio
ho cominciato recitando nei miei cortometraggi principalmente
perché ero attratto da fare ruoli burleschi.
Poi sono stati i produttori con cui lavoravo che mi
hanno spinto a continuare. E poi bisogna dire che mi
diverto un sacco. E’ un modo per esprimere meglio
parte della mia intimità.
Scrivere, girare, recitare
insieme… comporta un bel po’ di responsabilità.
Non è troppo stressante per lei?
Quando si è
regista e attore è più facile recitare,
perché si conoscono meglio le intenzioni del
regista! E poi quando uno recita in un proprio film
mette gli altri attori a proprio agio perché
loro vogliono vederti sperimentare delle soluzioni,
e vederti sbagliare! Questo li rassicura e si instaura
una certa complicità.