Era importante che il
tuo primo film fosse un horror?
Era la gamma di possibilità offerte dalla sceneggiatura
di The Orphanage che mi ha fatto venir voglia di dirigere
il film. Un progetto deve affascinarmi al di là
del genere a cui appartiene. Anche se è vero
che il cinema horror è un’ottima scuola.
Ti consente di manipolare il tempo e lo spazio a tuo
piacimento, di usare determinati movimenti di camera
per ottenere un effetto immediato. Questo ti dà
una certa sicurezza. Ma quello che rende vivo un film
sono le cose che vanno oltre le costrizioni del film
di genere: quello che c’è dietro, la sincerità
delle interpretazioni, il grado del tuo coinvolgimento
in quello che stai raccontando...
Un primo film dovrebbe
svolgere la funzione di un ‘manifesto artistico’?
Credo che un film sia l’immagine del tipo di regista
che sei nel momento in cui lo realizzi. Non so quale
sia la mia direzione come regista. Fare dei piani è
troppo razionale. Credo che la regia debba essere qualcosa
di più viscerale, di più emotivo.
Come avete lavorato alla
ristesura della sceneggiatura con Sergio Sánchez?
Questa è stata la parte più difficile.
La prima bozza era stata scritta quasi dieci anni prima.
Quando sono entrato a far parte del progetto dovevo
rendere mio quel testo, perciò abbiamo lavorato
alla sceneggiatura ripartendo da zero. La mia prima
domanda è stata: perché Laura torna nella
casa in cui è cresciuta? Questa era la chiave
per tutto il resto. The Orphanage è diventato
un viaggio nel passato, una regressione, un ritratto
psicologico di qualcuno che ripiega sul passato perché
non riesce ad affrontare il presente, e che alla fine
riesce ad evadere con la fantasia. Oltre a ciò,
la grande sfida era quella di conservare una certa ambiguità.
Si può leggere il film in modo realista, non
come una storia di fantasmi, ma come il ritratto di
una donna che impazzisce. Mantenere questa ambiguità
è diventato il nostro impegno principale e anche
ciò che ha reso il lavoro davvero eccitante.
I cortometraggi da te diretti
mostrano una grande influenza del cinema americano,
mentre The Orphanage ha decisamente uno stile ‘europeo’.
E’ stata una scelta voluta?
Sia nei miei corti che in The Orphanage c’è
un contrasto voluto tra il mondo reale e una realtà
più ‘hollywoodiana’. Mi piace vedermi
come il protagonista di questo conflitto, battermi contro
quello stile di Hollywood e contro il peso dei film
che ho visto da bambino e che sono un riferimento. Per
me la chiave consiste nel come riesci ad integrare quei
riferimenti. Carlos, il marito di Laura, la accusa di
farsi un film in testa. Non so se The Orphanage sia
più o meno girato in uno stile europeo, ma quello
che è voluto è lo sforzo fatto affinché
non somigliasse ai film horror che vengono girati oggi.
Il film ricorda quelli che vedevo da bambino. The Orphanage
è la mia personale regressione verso i film della
mia infanzia.
Puoi parlare dei tuoi riferimenti?
Suspiria, La Residencia (Gli orrori del liceo femminile),
Lo spirito dell’alveare, Suspense, Gli scomparsi
di Saint-Agil, o, più recentemente, La spina
del diavolo o Saint Ange di Pascal Laugier, che sembra
avere molti punti di riferimento e molte ossessioni
in comune con The Orphanage.
Non ho visto né Saint Ange né Gli scomparsi
di Saint-Agil . E’ vero, però, che durante
la preparazione abbiamo discusso di tutti gli altri
film citati. Ci sono alcune scene in cui tratto il colore
in modo molto simile a come faceva Dario Argento. Ho
anche fatto vedere La Residencia e Suspense al mio direttore
della fotografia, chiedendogli di fare particolare attenzione
all’uso delle lenti scope in entrambi i film.
Però i film che mi hanno influenzato di più
sono stati L’inquilino del terzo piano di Polanski
e Incontri ravvicinati del terzo tipo, sia in termini
formali che in termini narrativi. Laura parte per un
viaggio analogo a quello del personaggio di Richard
Dreyfuss in Incontri ravvicinati. E ammiro il modo in
cui Polanski inserisce l’assurdo nelle piccole
cose di ogni giorno, così come il suo uso dello
spazio, dell’obiettivo e della narrazione visiva.
Hai discusso questi riferimenti
con Guillermo Del Toro, e come pensavi di superarli
per trasformarli in qualcosa di completamente personale?
Non ne abbiamo parlato a lungo. Ovviamente ne eravamo
consapevoli, ma non abbiamo dato loro eccessiva importanza.
Ci siamo concentrati sulla storia, su come Laura perde
tutto fino a quando le resta solo la sua fantasia. Questo
è un aspetto che lega The Orphanage a Il labirinto
del fauno; Guillermo ed io eravamo sulla stessa lunghezza
d’onda.
Nella vita, anche per te
è stato difficile lasciarti l’infanzia
alle spalle?
Il contrasto tra il mondo degli adulti e l’infanzia
era un tema già affrontato nei miei cortometraggi.
Ha detto Truffaut che l’infanzia è qualcosa
di cui tutti hanno diritto di parlare con cognizione
di causa. Questo vale perfino per i giovani registi
della nostra generazione, spesso accusati di non avere
niente da dire.
Come regista, con chi ti
identifichi di più, con il bambino o con la madre?
Con entrambi. La madre compie un viaggio che finisce
col trasformarla in una bambina. E’ Simon a giocare
con i suoi amici invisibili durante la prima mezz’ora,
ma è Laura a entrarvi in contatto alla fine del
film. La vediamo persino vestita con un infantile abito
per la scuola. Ho arricchito il personaggio di Simon
con alcuni dettagli della mia infanzia. E Belén
mi ha aiutato a dare profondità al suo personaggio.
Lei ha anche vissuto la maternità e quindi possiede
la conoscenza necessaria ad incarnare la tragedia del
suo personaggio.
Come hai ideato la seduta
spiritica con Geraldine Chaplin?
E’ stata una vera sfida girare quella scena senza
tradire l’ambiguità che volevamo mantenere.
La seduta spiritica era il momento centrale del film,
doveva essere spettacolare senza ricorrere neanche al
più piccolo effetto speciale. Alla fine abbiamo
ottenuto quello che volevamo lavorando molto sul suono.
Simon è un bambino
adottato. Nel film quanto contribuisce questo elemento
ad approfondire i temi della colpa, della perdita e
della maternità?
Sicuramente le questioni della maternità e della
responsabilità sono messe in evidenza dal fatto
che Simon è un bambino adottato. Ci offre anche
la possibilità di entrare nella vita di questa
coppia, Laura e Carlos, e nel loro bisogno di proteggere
altri bambini vulnerabili. C’è un chiaro
parallelismo tra Laura e la Wendy di Peter Pan. Wendy
fantastica sull’idea di essere la madre dei bambini
abbandonati e di dedicare la sua vita a leggere storie
per farli addormentare.
Deformità, handicap
e malattia pervadono il film. Puoi spiegare perché?
I film horror parlano tutti di trasgressione. Devono
condurci in luoghi nei quali abbiamo paura di andare,
mostrarci cose di noi stessi che per noi sono inquietanti.
La deformità, l’handicap e la malattia
minacciano la nostra stabilità. Devi rompere
questa stabilità, capovolgerla. In questo consiste
il vero terrore. Qual è il mondo peggiore, quello
vero o quello immaginato da Laura? D’altro canto
la malattia provoca pensieri di mortalità, di
morte. Questa è una cosa che Laura deve imparare
ad affrontare.
Perché hai deciso di rievocare i forni crematori?
C’è una dimensione politica voluta nel
film?
Non ci ho pensato. Non è un forno crematorio
quello che vediamo nel film, è un magazzino per
il carbone. Un forno o una caldaia non avrebbero una
porta in legno.
Come spieghi il successo
internazionale dei film horror spagnoli e giapponesi,
quando quelli americani sono il loro esatto opposto:
pieni di sangue, torture ed effetti speciali?
A Hollywood la messa in scena è diventata importante
quanto le grandi star. I produttori esecutivi fanno
un uso eccessivo di effetti speciali, suoni e musica
per ipnotizzare il pubblico. E’ la loro strategia
per mascherare la mancanza di buone sceneggiature. Non
è colpa del pubblico. Film come Il sesto senso,
The Blair Witch Project o The Others hanno dato prova
del loro potenziale commerciale senza far ricorso ad
effetti visivi superflui. Allo stesso tempo la televisione
ha abbandonato qualsiasi remora nel mostrare la violenza
esplicita. Veri inseguimenti in auto, operazioni di
chirurgia plastica, vengono mandati in onda tutti i
giorni... è inevitabile che il cinema segua lo
stesso trend.
Ti senti di far parte della
‘new wave’ dei registi spagnoli?
In Spagna stiamo iniziando ad avere gli strumenti per
competere con il cinema internazionale. Non parlo solo
degli aspetti tecnici. Ho frequentato una scuola di
cinema, cosa impossibile per i registi più grandi
di età in Spagna, un paese in cui tutte le scuole
di cinema erano sparite. The Orphanage non è
solo il mio primo film, è anche un primo film
per lo sceneggiatore, il direttore della fotografia,
il montatore, il compositore... Non so se siamo parte
di un nuovo ciclo ma quello che so è che non
saremmo qui ora senza tutti quelli che ci sono stati
prima di noi.