Come scegli i progetti? Come nasce l’idea del film?
Ogni volta è una storia diversa, una partenza diversa. Ho girato più pellicole nella mia terra d’origine, attingendo alla mia biografia e miscelandola poi con gli incontri, le letture fatte altrove. In questo caso, invece, è nato tutto grazie a Scamarcio e alla simpatia che sapevo nutriva nei miei confronti. Lo spunto stesso del film è nato a casa mia, mentre aspettavo di incontrarlo. Cosa succederebbe, mi sono chiesto nell’attesa di Riccardo, se anziché imbattersi in un padre, o comunque un fratello maggiore, una guida, un riferimento, questo giovane si ritrovasse di fronte uno che finge di essere tutto questo ma che di fatto, per invidia, rivalsa -dovute alla differenza di età, per tutto ciò che l’altro ha e che a lui manca - lo ammazzerebbe? E come andrebbe viceversa se io non sapessi, immaginassi affatto che dietro quel giovane sano, fresco si nascondesse uno che vuole solo portarmi via tutto, tutto fino agli amori più cari della mia vita?
Il cinema consente di mettere in scena anche pensieri negativi - magari così uno evita di portarseli appresso nella vita…

Quand’è che senti che la storia funziona? Quando la scrivi o quando la giri?
Di sicuro nella fase di scrittura. E’ allora che la storia prende corpo, allora che il racconto rivela la sua forza e i suoi punti deboli. A volte bisogna avere anche la capacità di fermarsi. Se si incontrano ostacoli saldi forse si tratta di un percorso sbagliato e bisogna avere la forza di ricominciare daccapo.
Poi, nel corso della messa in scena, tutto va incontro ad una verifica ulteriore, spietata, se ci sono degli errori diventano tangibili. Ecco perché, con gli attori, non si può fare a meno di provare e provare e riprovare…

L’idea di ambientare un film nel mondo dell’arte?
Sono approdato all’arte contemporanea per strani percorsi. L’idea iniziale era di fare un film che raccontasse il conflitto tra un uomo maturo e un giovane, tra un intellettuale, un ragionatore, e un istintivo, e così sono finito a un critico e a un artista; ma sulle prime pensavo a un musicista. È stato Scamarcio che mi ha fatto cambiare idea: sua madre è una pittrice. Ma portare la pittura al cinema non è facile: si tratta di due superfici piatte - la tela, lo schermo. Così siamo passati alla tridimensionalità della scultura e, considerato che oggi lo scultore “classico” è una figura desueta, abbiamo costruito quell’artista “multiforme” e a tutto tondo a cui l’arte contemporanea ci ha abituato. Per raccontare credibilmente un ambiente così sdrucciolevole, ancor prima di cominciare a scrivere, con Angelo Pasquini e Carla Cavaluzzi, i miei co-sceneggiatori, abbiamo subito sentito il bisogno di individuare un “Virgilio” che ci facesse strada: Gianni Dessì. E’ grazie alla sua preziosa collaborazione che siamo riusciti a contestualizzare la storia. Il nostro intento comunque è rimasto sempre lo stesso: raccontare personaggi verosimili e dinamiche possibili senza però la pretesa di esprimere giudizi di sorta.
Man mano che il film prendeva corpo, abbiamo deciso che non solo le opere di Adrian Scala – il personaggio interpretato da Scamarcio – fossero realizzate dallo stesso Dessì ma che questi diventasse il curatore di tutte le mostre raccontate nella storia. È il curatore nel senso che ha scelto gli artisti con la coerenza con cui il curatore svolge il suo compito. Insieme al lavoro fatto - di ricerca di spazi e costruzione di ambienti - dallo scenografo che da sempre collabora con me, Luca Gobbi, ne è venuto fuori un risultato a mio parere molto efficace. Nel film appaiono solo opere vere, niente pezzi da laboratorio di scenografia. Dessì, in fase di preparazione, ha anche lavorato assiduamente con Scamarcio. In questo modo Riccardo ha potuto prendere dimestichezza con gli strumenti e i materiali usati dall’artista che poi avrebbe interpretato.

L’aspirazione al successo. E’ un tema forte del film?
Raccontando la storia di un giovane artista di talento, ben si comprende come il tema del successo sia un tutt’uno con la condizione esistenziale del nostro protagonista. L’artista, di necessità, ha come obiettivo il riconoscimento da parte della collettività – in primis del mondo dell’arte – del proprio valore. Ciò implica la sua continua esposizione non solo al giudizio degli altri ma ai pericoli, agli intralci, a ciò che minaccia insomma il proprio progetto. Tutto questo si complica quando si ritrova di fronte a delle scelte che sono delle vere biforcazioni: da una parte una strada più difficile e lunga, dall’altra una più rapida e agevole ma scorretta, pericolosa anche. Il film racconta il conflitto lacerante che ognuno di noi vive con la propria ombra.

Un film di genere?
Per un tema così - il doppio, l’ombra – ho subito pensato al noir, mi permetteva di raccontare non solo una storia, ma uno stato d’animo, l’accrescersi di una febbre che portata al paradosso può spingere un uomo fino al delitto. Mettiamoci sopra poi che questo conflitto va a consumarsi in un ambiente estremamente confortevole, in un salotto curato, ben illuminato, in cui l’abbrutimento è solo morale, non del costume... Insomma niente di dark o sanguinolento, solo un nero “luccicante”. Penso che, ad una prima lettura, lo spettatore possa accoglierlo come un film di genere, scoprendo, poi, in un secondo momento, i diversi livelli che si nascondono dietro.

L’arte e il plagio…
Un confine molto labile. Ma dentro di noi sappiamo bene cosa ci appartiene e cosa no. È ciò che avviene dentro di noi l’aspetto che mi interessava approfondire.

Ti sei vagamente ispirato a qualcuno?
Mi è stata di aiuto qualcuna delle “ombre” che vivono dentro ognuno di noi nonché Faust, Otello...

Interpretare la cattiveria…
È un’esperienza compensativa “fare il cattivo” in scena: ti apre, ti completa, ti fa conoscere - senza grandissimi rischi! – parti di te più estreme, di cui magari eri all’oscuro, ma che pure ti appartengono. E poi ti aiuta a guardare il tuo doppio con distacco e quindi con una certa ironia e forse ad esserlo di meno nella vita.

Nei tuoi film scegli per te un ruolo da coprotagonista.
La razionalità del regista e l’irresponsabilità dell’attore sono due “modi d’essere” che a fatica coesistono - a meno che non ci sia un’inclinazione di tipo schizofrenico… In passato ho cercato di ritagliarmi ruoli che fossero sempre più piccoli per sottrarmi a questa malattia. Questa volta mi è andata male: Lulli è un personaggio molto presente nel racconto e per di più complesso.

Ci parli allora del tuo protagonista, Riccardo Scamarcio?
Scamarcio oltre ad essere un bravo attore è estremamente versatile. Sul suo volto, nel suo modo d’essere sono presenti più sfumature: non solo quell’immediatezza tipica della gioventù che lo ha portato al successo coi suoi film d’esordio, ma anche una malizia, una consapevolezza. Lo sguardo – proprio dell’adulto - di chi sa già sostenere scelte e responsabilità. Inoltre lo ritengo una vera occasione per la nostra cinematografia: può “traghettare” parte del suo pubblico verso un cinema meno “settoriale” - com’è quello generazionale o giovanilistico - ma più ampio ed eterogeneo. Infine mi sembra che Riccardo, con il suo modo di porsi, sdogani definitivamente la figura del meridionale con la valigia di cartone.

Dialetto pugliese sul set e complicità con Scamarcio?
A volte. Avere in comune una lingua - nel caso mio e di Scamarcio il dialetto – ci poneva in una condizione privilegiata rispetto agli altri. Quando volevamo potevamo comunicare senza essere compresi: una sorta di magia, un segreto. Un gioco da ragazzi molto divertente ma anche molto intimo, che ci ha uniti ancora di più.

E Vittoria Puccini? Dopo averla fatta debuttare al cinema in “Tutto l’amore che c’è” l’hai l’hai scelta di nuovo.
Vittoria è un’attrice molto solida che pur mantiene una grande naturalezza. Con la sua bellezza fredda e composta e la sua aria da ragazza perbene, mi è sembrata poter incarnare a dovere il personaggio di una giovane e raffinata studiosa d’arte dalla personalità complessa e profonda - peraltro oggetto del desiderio di due uomini di età diverse. La totale mancanza di volgarità nella sua fisicità e nei suoi modi, mi ha permesso anche di mostrare nel film la sua nudità lasciando intatte l’idea estetica di una femminilità eterea, e quella etica di un personaggio spirituale.

Le scene più emozionanti e quelle più difficili?
Quando ho girato alla Biennale – si trattava di un inseguimento – è stato molto emozionante. Poter girare proprio nel capannone delle Corderie è stata un’esperienza unica. Un set perfettamente “scenografato” e già perfettamente illuminato: un vero regalo! Quanto alle scene difficili: non esistono scene facili.

Il tuo rapporto con la tecnica cinematografica?
È lo strumento con cui scrivi ciò che hai immaginato, su cui hai ragionato; è bene approfondirla, ma con misura per non esserne fagocitati. Delle volte sarebbe anche vitale presentarsi sul set senza avere un’idea precisa di cosa fare - per lasciarsi andare, improvvisare. Fellini raccontava che è proprio quando hai immaginato una scena con le nuvole e il caso vuole che ti ritrovi a girarla ahimè col sole, che il film ti si rivela, ti mostra la sua identità. Il compito di un regista è anche quello di assecondare il suo film. Insomma è come se i film esistessero da qualche altra parte chissà dove e il regista avesse il compito di catturarli, di imbrigliarli e dargli una forma.

Qual è il tuo rapporto con la critica?
Sto attento a quello che scrivono e mi interrogo su quello che faccio. A volte, se ci riesco, provo a dimenticarmene…

Come è avvenuto l’incontro con Sergio Rubini?
La prima volta che ho conosciuto Sergio è stato quattro anni fa durante un provino per “L’anima Gemella”. In realtà, ancor prima di fare il Centro Sperimentale, lui era a Bari e aveva fatto una lettura in libreria e io ero andato a guardarlo; quella è stata la prima volta che l’ho visto di persona, ed è stato un momento forte perché per me lui rappresenta colui che ce l’ha fatta, un attore rispettato, un regista di successo, ma anche con un suo carisma, una sua personalità, molto precisa e indipendente.

La nascita di questo progetto?
Sergio mi ha raccontato che voleva fare un film su un artista che si imbatte nel mondo dell’arte e che si ritrova poi a vivere tutta l’ambiguità e la difficoltà nella gestione dei rapporti umani e professionali. La scelta dello scultore è arrivata da un mio suggerimento sulla pittura che poi Sergio ha metabolizzato e indirizzato verso la scultura. Il film rappresenta proprio questo rapporto tra l’arte e gli ostacoli che un’ artista incontra nell’espressione di sé ed è un meccanismo molto interessante dal punto di vista umano.

Cosa ti fa amare un progetto?
Primo su tutti il personaggio che devo interpretare; poi la storia e il regista. Considero questi tre elementi fondamentali; a seconda dei casi almeno uno di questi tre mi deve piacere.
In questo caso il motivo principale è stato Sergio Rubini. L’idea di lavorare con lui mi ha completamente rapito; ho visto tutti i suoi film, ero e sono un suo fan. Questo film è nato dopo che Sergio ha visto delle mie foto su Ciak e mi ha invitato da lui. Mi ha raccontato questa storia, che inizialmente era la storia di un musicista, ed io gli ho esposto liberamente la mia opinione rispetto all’arte, proponendo la figura di un pittore, forse perché mia mamma è pittrice. Mi ritrovo a fare questo film perché sicuramente mi interessava lavorare con Sergio e gli ho dato la mia disponibilità senza avere un copione scritto, da subito.

Come giudichi il tuo personaggio?
Ci sono molti punti di contatto tra me e Adrian Scala, ma anche grandi differenze. Io ho un profondo rispetto per la vita e il mondo dell’arte, mentre Adrian è un’artista giovane che cerca di trovare canali che permettano alla sua arte di ottenere riconoscimento. C’è tutto un mondo di critici e giornalisti che conferiscono il valore all’opera creata, e questo è l’elemento per il quale è stato deciso di optare per uno scultore e non un musicista; perché riconoscere il potenziale di una scultura è molto più complicato. Comunque il mio personaggio non è così pusillanime, anzi è un‘artista che semplicemente non può fare a meno di voler esprimere la propria identità attraverso l’arte, attraverso le sue sculture.

Lulli e Adrian Scala. Personaggi che esistono anche nella realtà?
I personaggi alla Lulli esistono anche nel mondo del cinema, in maniera magari più estrema o meno estrema, però ci sono e possono essere vari. Personaggi che collaborano con gli artisti e molto spesso gli sono vicini, che vivono una frustrazione, conscia o inconscia, tale da farli diventare dei grandissimi manipolatori e da fargli dimenticare gli aspetti fondamentali dell’essere artista. Questo è un film dai molti colori e dalle molte sfaccettature; mi piace pensare che Lulli rappresenti il nero e Gloria il bianco, e che sia Gloria che Lulli siano due componenti di Adrian, la coscienza e il male.

L’arte come protagonista del film?
E’ complicato riuscire a rappresentare il travaglio e la fatica dell’artista nel momento della creazione, però in realtà non è questo che noi vogliamo rappresentare. Ciò che è interessante sono le dinamiche che si scatenano nella storia d’amore; Adrian si ritrova a dover scegliere tra l’amore per questa donna e l’amore per la sua arte, tra i sentimenti e l’affermazione del proprio talento. Si tratta di una dinamica universale, non specifica, è una cosa che riguarda semplicemente l’uomo, che sia un artista o meno.

Ci sono scene particolarmente difficili?
Non ci sono state scene che veramente mi spaventavano, anche perché non mi è stato chiesto di fare le sculture. Mi sono soltanto allarmato in alcune scene dove il personaggio perde la propria identità e resta in balia di sé stesso senza trovare una via d’uscita. Sono stati toccati dei temi molto delicati, delle dinamiche psicoanalitiche abbastanza complesse

Come è stato il rapporto con Gianni Dessì?
Gianni Dessì è l’artista che ci ha concesso le sue opere, che ha curato tutto l’allestimento, è il nostro supervisor artistico. Con lui abbiamo passato due settimane nel suo studio prima di cominciare il film e mi ha dato delle preziose massime di arte per approfondire il mio personaggio. Mia mamma dipinge e ho preso atto sin da bambino di essere completamente negato riguardo alle arti pittoriche, ma poi ho scoperto che c’è una tecnica specifica per gestire il pennello e la materia, un linguaggio vero e proprio. E’ cosa che ho scoperto con mia madre diversi anni fa ed è molto interessante; molti non sanno che spesso l’immagine c’è già, che ti viene suggerita dalla materia stessa. Questa è una consapevolezza che ho acquisito col tempo.

Gloria, Cassandra incompresa…
Gloria è un personaggio molto drammatico perché all’interno di questa storia è portatrice di una verità che all’inizio solo lei intuisce. Purtroppo è destinata a non essere creduta da nessuno e arriva al finale del film con una confusione tale dentro di sé per cui non riesce più a capire se quello che intuisce è effettivamente giusto o meno. Non posso spiegarlo meglio altrimenti rischio di svelare troppo.

Dopo “Tutto l’amore che c’è” un nuovo film di Sergio Rubini…
“Tutto l’amore che c’è” è stato il mio debutto nel cinema. Si è rivelata un’esperienza un pò a sé, proprio perchè lui aveva selezionato un cast di giovani non attori e l’intero impianto creativo aveva quasi la formula del gioco. Oggi, invece, faccio questo lavoro con una maturità diversa. Sono molto contenta di aver fatto parte di questo progetto, perché qui c’è una sorta di sintesi del percorso professionale di Sergio nella sua interezza. Il suo modo di lavorare sugli attori è molto forte perché ti spinge ad utilizzare corde diverse dalle tue, a cercare strade più difficili rispetto a quelle che sceglieresti normalmente, quindi molto appagante.

Ci parli dell’ambientazione e della storia del film?
L’ambientazione è il mondo dell’arte, abbastanza inusuale nel nostro cinema. L’ho trovata una cosa molto originale; abbiamo girato in ambienti meravigliosi, dotati di grande impatto visivo ma anche di estrema forza simbolica. La storia in sé è un noir passionale con un colpo di scena finale per cui non è mai scontata. E anche ricca di emozioni vere e di personaggi in cui è facile identificarsi.

Come è stato il rapporto artistico con Scamarcio?
Credo che ci sia stata alchimia sia con Sergio che con Riccardo. Riccardo è un attore molto generoso, nel senso che ti aiuta, costruendo con te la scena e non facendo riferimento esclusivamente a se stesso. È stato un lavoro molto bello.

Qual è il tuo rapporto con l’arte?
Con l’arte io ho un rapporto molto stretto. Così come Gloria, anch’io sono stata educata all’arte fin da piccola; mio nonno paterno, infatti, è stato per tanti anni Sovraintendente ai Beni
culturali di Firenze ed ha ristrutturato molti edifici, chiese e palazzi importanti sia nella città che nella provincia di Firenze. Sono cresciuta in mezzo ai libri di storia dell’arte e adoro andare nei musei ad osservare i quadri o le opere d’arte. Un rapporto molto emotivo, non dico di soffrire di sindrome di Stendhal, però mi è capitato di commuovermi davanti ad una statua del Canova o a un quadro del Caravaggio.

Le strade che portano al successo. Hai mai conosciuto personaggi come Pietro Lulli o Adrian Scala?
Il tema centrale del film è proprio la strada che conduce al successo senza vendere l’anima al diavolo. Il personaggio di Adrian è tentato dai compromessi e dalle scorciatoie. Io ho vissuto una situazione simile, quando il successo televisivo di “Elisa di Rivombrosa” mi è piovuto addosso all’improvviso ed io non ero preparata a tutta questa popolarità. Un conto, infatti, è arrivare al successo con una carriera solida, fatta di film piccoli e grandi, belli e meno belli, un altro è esserne sopraffatta quando ancora sei alle prime armi e totalmente impreparata.
Il mio Pietro Lulli è stato proprio Rubini. Ma un Pietro Lulli diverso, positivo! Con lui ho fatto il primo film e ho capito quello che volevo fare nella mia vita, che non c’era altro che volessi fare di più. In realtà a me non è mai capitato di mettermi nelle mani di qualcuno che poi condizionasse tutto il mio percorso, anche perchè ritengo che in questo lavoro affidarsi completamente ad una persona sia sbagliato e che l’unico modo per crescere veramente sia confrontarsi con persone con esperienze diverse.

Quali sono state le scene più difficili e più belle per te ?
Sono tutte scene molto complicate ed emotivamente forti, piene di tante sfumature diverse. Per me tornare al cinema con un film così ha significato grande partecipazione, grande voglia di fare e grande coraggio. Non potrò mai ringraziare abbastanza Sergio per questa bellissima opportunità che mi ha dato.

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