anno 1
numero 1
maggio 2004

Stanley Kubrick o il cinema tra progetto e immaginazione

[giuseppe panella]

Odio che mi si chieda di spiegare come "funziona" il film, cosa avevo in mente, e così via. (1971)

Chiunque si interessi alla regia dovrebbe studiare insieme, e comparare, Chaplin e Ejzenstein. Dovendo scegliere tra i due, personalmente sceglierei Chaplin. (1971)

Si potrebbe immaginare un film dove le immagini e la musica fossero utilizzate in modo poetico o musicale, dove si avesse una serie di enunciati visuali impliciti piuttosto delle esplicite dichiarazioni verbali. Nessuno ha mai fatto un film importante dove questi aspetti unici dell'arte cinematografica siano il solo mezzo di comunicazione. Pure, le scene più forti, quelle di cui ci si ricorda, non son mai scene in cui delle persone si parlano, ma quasi sempre scene di musica e immagini. (1972)

Il tema, ovviamente, è inesauribile. Parlare in modo esauriente e articolato di Kubrick è come pretendere di parlare in modo esaustivo del cinema perché Kubrick (almeno per i lettori e frequentatori de Il Grido e della sua mailing-list) è diventato il Cinema.
Il risultato del sondaggio 'finale' (alla conclusione di tutta una serie di 'eliminatorie' precedenti) tenutosi sul sito del gruppo dei fattidicinema, infatti, ha confermato una buona maggioranza a favore del regista americano nei confronti del pur straordinario Federico Fellini. Ovviamente, il sondaggio non voleva stabilire chi fosse il più bravo dei due, ma chi era più il più gradito come regista tra i frequentatori del sito. Come interpretare questa vittoria e questa passione per un regista peraltro complesso e non sempre accessibile al grande pubblico, minuzioso fino alla maniacalità e talvolta accusato di "freddezza" e di "manierismo"?
Quella di Stanley Kubrick è stata una dedizione al cinema che non ha conosciuto soste e che si è rivelata tale fin dal principio: "Bisogna ricordare che si deve vivere con un film per il resto della propria vita". Il giovanissimo da poco diplomato (con appena la sufficienza pare e pare anche che odiasse tanto la sua scuola da darle fuoco) che vendeva foto a "Look" e a "Life" negli anni Quaranta e che ha girato nel 1949 il geniale documentario Day of the Fight non sembrerebbe diverso nelle intenzioni e nel suo modello di stile dal regista perfezionista e (forse) maniacale che ha lasciato incompiuto il suo capolavoro finale Eyes Wide Shut. Ma questo non è sufficiente a spiegarne il fascino sui suoi spettatori. Il modello registico di Kubrick (effettivamente non comparabile con quello di altri pur straordinari realizzatori di film) fa la differenza: la capacità inventiva che permette all'immaginazione di scatenarsi senza perdere di vista il rigore dell'applicazione della tecnica alla fantasia. Il 'mago della regia' di The Shining (il primo film completamente realizzato utilizzando la steady-cam da poco costruita da Garrett Brown) è lo stesso che utilizza il carbonio 14 fotografico su lenti Zeiss per le scene girate a lume di candela di Barry Lyndon. E si potrebbe continuare all'infinito. Non a caso quelli che io reputo i temi fondamentali del regista di Newark sono (e non a caso) la tecnica, la violenza e il tempo: la tecnica della violenza e la violenza della tecnica (2001: A Space Odyssey ma anche Dr. Strangelove o A Clockwork Orange); la violenza contro il tempo (The Killing, 2001 ma anche The Shining e Eyes Wide Shut) e la Storia come forma di violenza perenne che si perpetua e si rivolge contro i soggetti più deboli e contro gli individui (Barry Lyndon dove la violenza della Storia è esplicitata soprattutto nella prima parte ma anche Paths of Glory, Spartacus, Full Metal Jacket…). Una parte della critica meno avvertita (soprattutto agli inizi della carriera di Kubrick) lo aveva classificato come 'poeta' dei generi sostenendo che egli in ogni film rifaceva un genere preciso: il noir, il film di guerra, il peplum, la fantascienza, la satira politica e l'horror.
È questa - credo - un'ipotesi critica totalmente sbagliata nei presupposti. Kubrick semmai ha sempre dato l'impressione di voler girare lo 'stesso' film per mettere a fuoco in maniera più precisa, attenta, rigorosa, dettagliata il suo 'stesso' discorso sul cinema (in ciò simile - nel bene e nel male - ad altri grandi registi meta-filmici come Lang, Fellini o Lynch).
L'argomento costante del cinema di Kubrick, quindi, è, a mio avviso, il cinema stesso come arte del mostrare, del far vedere, del 'visibile' come possibile orizzonte 'assoluto' della conoscenza. Il cinema, per Kubrick, non serve tanto a raccontare delle storie quanto a farle vedere. Il meccanismo visivo del cinema ha la funzione di mettere in evidenza ciò che lo sguardo dello spettatore tenderebbe a non vedere, ad ignorare, a considerare secondario. Per questo motivo Kubrick fa correre forsennatamente la macchina da presa lungo la fila dei soldati pronti a uscire dalla trincea in Paths of Glory per evidenziarne la paura e la rabbia che li tiene in piedi in attesa di andare a morire; per questo i carrelli di The Shining sono interminabili e ricorrenti e avvolgentisi su stessi come il labirinto del Tempo che si annoda a se stesso in attesa di ripetersi eternamente; per lo stesso motivo i corpi nudi che copulano nella scena dell'orgia in Eyes Wide Shut sono mostrati solo come corpi che si accoppiano e non come persone che si incontrano nell'atto sessuale in modo da metterne in luce l'assoluta fungibilità e interscambiabilità come pure il loro destino di morte; ancora per questo il volto della giovane donna vietnamita segata in due dalle mitragliatrici americane a Hué assume nell'ultimo fotogramma in cui si vede l'aspetto minaccioso e raggelante della Medusa del Caravaggio (il suo volto pietrificherà gli yankees nella loro dimensione di assassini e di vittime al tempo stesso costringendoli ad essere per sempre quello che in Vietnam sono stati). E ancora l'ambizione politica gelida e micidiale di Crasso in Spartacus, il delirio militare di Dr. Strangelove, la passione assoluta e assassina di Humbert Humbert in Lolita, la follia di gruppo e la meccanicità della violenza di Alexander Delarge e dei suoi droogs in A Clockwork Orange, l'assurdità della macchina di morte che diventa l'addestramento militare nel primo tempo di Full Metal Jacket sono metafore della Storia e della vita associata in società che si trasformano in simboli attraverso il loro essere di-mostrate per immagini. E nonostante l'assoluta precisione del progetto da cui nascono, in esse la follia che mostrano 'sfonda' il confine tra il sogno e la realtà, tra il momento della visione e quello della ricostruzione realistica, tra il progetto razionale e l'intuizione produttiva.