Nella
sua “The White
Room” Caterina Gramaglia è
assolutamente a suo agio. Si muove libera padroneggiando
un’arte, quella dell’attore, che le è
propria. Su questo non c’è alcun dubbio:
voce forte e potente, mimica facciale impressionante,
dizione perfetta. Si adagia su queste doti per costruire
da sola uno spettacolo che oscilla, come lei stessa
afferma: «Tra il demenziale e la poesia».
E per certi versi è vero.
Nella
White Room, che gradualmente si apre
per lasciarvi entrare, almeno simbolicamente, lo spettatore,
la Gramaglia è prima una cantante lirica, poi
una giapponese, poi un personaggio fiabesco con dei
led in testa, poi un’attrice vecchio stile,
infine Gelsomina. Questo sulla scena. A intervallare
le interpretazioni, una serie di video dove l’attrice
scherza con la telecamera, si prende in giro, o la
usa a corredo della storia raccontata dal vivo, sul
palco.
Nelle
intenzioni, dunque, una sorta di evoluzione narrativa
che, si potrebbe dire, dal Giappone e il suo teatro
porta fino a “La Strada” di Fellini. Questa
supposta evoluzione, però, sulla scena non
avviene e resta relegata nelle intenzioni, restituendo
l’impressione di assistere a qualcosa di ancora
molto acerbo. Di certo bella l’intuizione di
dare sfogo ai personaggi che albergano nella mente
dell’autrice-attrice-regista. E bella anche
l’idea di una scatola bianca che si apre e lascia
fluire i personaggi. Ma forse andava fatta maturare
ancora un po’, fatta crescere e germogliare
per rendere più chiaro l’impermanente,
ovvero cioè che è in continua mutazione
e che poi è il soggetto ispiratore dello spettacolo.
[patrizia vitrugno]