Roma,
1983. Ida, matura insegnante di lingue, vive un’esistenza
grigia in un anonimo appartamento assediato dal traffico.
Rimasta invalida ad una gamba dopo un banale incidente
domestico occorsole nell’adolescenza, trascorsa
in un paesino dell’entroterra campano, la donna
racchiude in sé i tratti della bruttina stagionata
chiamata a fare i conti con un immaginario erotico sfrenato.
Trasognata e dritta davanti allo specchio smette il
quotidiano abito grigio per indossare provocanti sottovesti
rosso fuoco o grigio perla, mentre al giradischi si
alternano canzoni francesi degli anni Venti e Trenta,
melodie che alludono a giovinezze bruciate, a gabbie
di solitudini senza carezze.
Nel corso di un fine settimana come tanti, le fantasie
di Ida finiscono per materializzarsi prima con Narciso,
un idraulico tanto attraente quanto poco forbito, poi
con Marco, uno studente ancora privo di esperienze sessuali.
Nel primo caso, tra scene piuttosto esplicite, dove
l’amplesso degenera in violenza e la nudità
maschile si fa integrale, il rapporto che lega la vittima
al carnefice cambia di segno e conferisce ad una Ida
trasformata la forza di un personaggio compiutamente
tragico.
Margherita di Rauso, una carriera costellata di classici
diretti, tra gli altri, da Giorgio Strehler, Luca Ronconi,
Giorgio De Capitani, Michele Placido, è la protagonista
assoluta di questo anomalo noir italiano. Notevole il
monologo a metà del secondo atto, dove i fantasmi
interiori sembrano svolazzare in scena sulle note di
una musica da processione che la riconduce al profondo
sud dove è cresciuta. Interessante la modalità,
non soltanto fisica, con la quale la Di Rauso riesce
a trasmettere un’aura di sensualità ad
un personaggio che, all’inizio dell’opera,
appare totalmente anonimo. Accanto all’attrice
si muovono Giulio Forges Davanzati, già coprotagonista
de “Il laureato”
accanto a Giuliana De Sio, e Brenno Placido che, dopo
“La bella addormentata”
di Marco Bellocchio ha recitato in “Re
Lear” di Shakespeare al fianco
del padre Michele. La regia di Luca De Bei non mostra
smagliature neanche nei momenti in cui il congegno narrativo
impone un deciso cambio di passo.
Gli anni Ottanta penetrano nell’opera quasi in
punta di piedi o, al contrario, con sfoghi di violenza
improvvisa, come nella scena in cui Ida, desiderosa
di effusioni, viene spinta a terra da un Narciso quasi
ipnotizzato dalla voce di Paolo Valenti intento a leggere
la schedina in apertura di “Novantesimo Minuto”.
La scenografia appare essenziale e restituisce allo
spettatore l’immagine di un appartamento piccolo
borghese collegato con l’esterno da un’enorme
porta-finestra che si rivela più che mai funzionale
allo svolgimento della narrazione. Impeccabili le musiche,
quasi interamente tratte dalla tradizione francese tra
le due guerre, da “J’ai perdu ma jeunesse”
di Damia a “Domino” di André Claveau,
alla celebre “Que reste-t-il de nos amour”
nella versione di Lucienne Boyer. [valerio
refat]
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