Probabilmente
ha ragione Leonardo Losavio, quando recita che il giallo
è il colore della pazzia, un giallo quasi accecante.
Chiede scusa invece Vincent Van Gogh, che vede nel celeste
chiaro il colore del silenzio, nei toni del magenta
la rabbia e in quelli del verde scuro la tristezza.
Al Teatro Millelire di Roma è in scena lo spettacolo
“Vincent, vita colori
e morte di una follia” per la
regia di Roberto Galano di e con Leonardo Losavio. Si
sa, quando si parla di Van Gogh non si è di fronte
a un personaggio qualsiasi, banale, stereotipato. La
potenza che esiste in questa storia va al di là
delle notizie superficiali: oltre alla biografia di
artista straordinario, nel monologo di Losavio c’è
il racconto di una disgrazia, della morte prematura
di Willem, il fratellino deceduto alla nascita e del
quale il Vincent sentirà addosso, per tutta la
sua breve esistenza (1853-1890), l’ombra ingombrante.
Un fratello mai conosciuto, ma capace di negargli l’amore
della madre. Per tutto lo spettacolo si ha la percezione
chiara del suo carattere ambiguo, spesso sopraffatto
dalla continua lotta con i fantasmi del passato, degli
interrogatori seppur blasfemi ma supplicati che ha con
Dio. Una ricerca affannata di sé attraverso la
pittura, scoperta da trentenne e attraverso lo scontro
duro con le persone che lo accusano di essere pazzo.
Van Gogh passa dall’insicurezza del suo talento,
all’ossessione del confronto con Gauguin e l’impressionismo
francese. Ha paura del mondo avido di ogni forma d’amore;
teme la reclusione e si dimena, si contorce quasi per
liberarsene.
Van Gogh non è un personaggio qualsiasi: quando
si parla di follia spesso si ha a che fare con individui
che vacillano sul filo della depressione. In “Vincent,
vita colori e morte di una follia”,
spettacolo, bello, intenso e che ben racconta la vita
dell’artista, con una drammaturgia snella e qualche
tocco di pianoforte, si vacilla in questa direzione.
La follia esiste solo nel testo, nel racconto tormentato
di un uomo che fatica ad accettarsi e ad essere accettato,
nella parola a volte stanca e a volte perseguitata di
un personaggio snervato dalla vita. Ma della follia
vera, della disperazione che deriva da un dolore antico,
non c’è traccia. Si è costantemente
di fronte a qualcuno che deve essere aiutato, a un’anima
in pena. Un uomo ignorato, dunque, non un folle. Quello
che viene fuori da questa storia tragica e violenta
è la prova energica, ma non del tutto centrata
di Leonardo Losavio. Forse nello spettacolo deve ancora
emergere quel giallo accecante, di cui tanto ardeva
Van Gogh. [serena
giorgi]
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