Spettacolo
frizzante che s’ispira al genere che affonda
in un misto tra la clownerie e Commedia dell’Arte.
La verità è un limone ci trasporta
in un mondo no-sense, onirico e naïve proprio
dell’infanzia. Il protagonista Tuye-yè-yè
non è uomo, né donna e neanche un bambino:
è un fanciullino pascoliano che anima gli oggetti
come nessun altro potrebbe fare e scopre il mondo
con occhi sempre nuovi. La soffitta diviene il trampolino
di lancio per la creazione di storie e amici immaginari
come l’orso di peluche, il cavallo di pezza
e la paletta/scopetta. Scoperte, danze e capriole,
che nascondono una ricerca ben più seria e
profonda: il confronto con gli archetipi fondamentali
dell’esistenza, quindi con il padre, la madre,
il rito del teatro, Dio e la ricerca del vero senso
della vita. Una verità alla quale ciascuno
aspira, ma che in parte rimane non svelata. A fornire
la risposta si palesa allora la classica tematica
pirandelliana (la filosofia del pensiero debole tanto
amata dall’autore), data dalla misteriosa signora
Ponza: “Io sono colei che mi si crede”.
Qui la saggezza di Tuye suggerisce che per essere
felici basta invece appagare la propria interezza:
“Basta rimanere interi”. L’Augusto
estroverso che ci si presenta all’inizio della
storia, si trasforma verso la fine in un Clown bianco
triste e malinconico, che piangendo evidenzia tutte
le contraddizioni irrisolte e le paure da superare
per raggiungere una seppur momentanea serenità
esistenziale.
L’idea alla base del testo scritto da Selene
Grandini - attrice protagonista -, è buona;
tuttavia la storia risulta in alcuni punti frammentaria
e a volte poco comprensibile. Seppur interessante,
la sua interpretazione non sempre riesce a rendere
nel modo giusto i passaggi e le sfumature da un climax
all’altro, e durante il racconto si perde il
senso di alcune frasi e parole. La voce fuori campo
di Giorgio Albertazzi è dissacrante e spassionata,
ma non sembra ben assortita con la storia: piomba
come un deus ex-machina a risolvere ed accompagnare
il momenti di malinconia di Tuye. La voce di un bambino
(che si definisce lato razionale, ma che dovrebbe
al contrario coincidere con l’irrazionale e
la parte creativa di noi stessi), si dilunga in affermazioni
un po’ pleonastiche e letterarie più
consone ad un saggio che ad uno spettacolo teatrale.
Le luci potevano essere migliori, così come
in alcuni punti la regia, che ha inserito in modo
troppo decontestualizzato alcuni video proiettati
su lenzuoli disposti come fondale.
Nel complesso tuttavia è uno spettacolo apprezzabile,
passibile di miglioramenti, ma comunque da vedere
per promuovere la nuova generazione di attori e registi
che ha diritto di sperimentarsi e sperimentare ricercando
come Tuye-yè-yè la sua verità
e il suo modo di interpretare la parola “teatro”.
[annalisa picconi]