Ventitré
è il numero della congiura. Intorno è
buio. Le tenebre avvolgono il tempo della macchinazione
e dell’ideazione, del timore e della rabbia.
Nell’alternarsi di tre vecchie porte che si
incrociano e si alternano sul palco, si creano le
scene che racchiudono la storia degli ultimi giorni
di vita di Giulio Cesare la cui figura non compare
mai, ma la cui ombra campeggia su tutti i protagonisti.
È nei discorsi, nelle menti, nelle azioni.
La ritroviamo come genesi di tutto e come fine ultimo.
Il lucido Cassio (Marco Grossi) e il tormentato Bruto
(Giandomenico Cupaiuolo) ridisegnano l’ora del
complotto. Tra di loro, in uno scambio di gesti e
pensieri Casca (Lucas Waldem Zanforlini), il primo
a pugnalare Cesare, personaggio misterioso e dannato.
Nello
scorrere del tempo viviamo l’avvicinarsi dell’atto
estremo, organizzato nei dettagli, ansiosamente bramato
nella veglia notturna di Bruto. L’attenta e
originale regia di Andrea Baracco, seleziona accuratamente
i momenti da rappresentare. La lettura che il regista
fa assieme a Vincenzo Manna (si concentrano infatti
sul I e II atto del testo shakespeariano) è
una lettura nuova della tragedia, una visione che
lascia sul fondo il protagonista e che porta in primissimo
piano l’azione delittuosa. Ciò che c’è
dietro, da chi è animata, in che modo. Le donne
che girano attorno a Cesare, dalla sposa Calpurnia
(Alessandra Paoletti), a Porzia (Livia Castiglioni),
moglie di Bruto. E poi il buio. Il buio è Roma:
decaduta, corrotta, intimamente sporca. A tratti alcune
lampadine, azionate dagli stessi attori, si accendono
e si spengono, quasi a seguire il flusso dei pensieri
ora privati ora pubblici che animano il gesto.
E
nel buio le Idi di marzo si compiono puntuali: il
tempo del pensiero è passato. Ora c’è
l’azione fatta da ventitré linee rosse
tracciate sulla grigia e consunta poltrona di Cesare.
[viola d'alconzo]