Un
vero e proprio amore ha legato Pasolini a Roma. La
città cui deve, come ha raccontato egli stesso,
la maturità. Quella città che se dovesse
avere un sesso, scrive il poeta, “non sarebbe
né maschile né femminile ma sarebbe
il sesso dei ragazzi nell’età dell’adolescenza”.
E avrebbe le sembianze di un “tipico ragazzo
romano di borgata: cioè bruno, olivastro, con
l’occhio nero e il corpo aitante”. È
questa “grande capitale popolare” dall’anima
giovane e canzonata quella che il regista e attore
Roberto Valerio ha scelto di recuperare attingendo
alla grande memoria narrativa e cinematografica pasoliniana,
ne Il Vantone che ha aperto la stagione del Teatro
India. In scena c’è la metropoli allegra
del dopoguerra, quella dei fieri “racconta balle”,
dei “vantoni” da bar. Quella di Pietralata
o del Prenestino dove la quotidianità si consuma
tra bravate, corse e risate. Istantanee di giornate
che prendono corpo attraverso un linguaggio asciutto
e crudo, sempre ironico e denso di significati, costruito
su un crescendo di metafore che suonano come piccole
e grandi lezioni di esistenza consumata sulla strada.
Nello spettacolo di Roberto Valerio rivive tutto il
disincanto e l’autenticità della vita
delle baracche, in quella periferia proletaria e sottoproletaria
oggi dimenticata, dove tra sporcizia e rifiuti si
sente tutto il respiro “indigeno” della
città. La messa in scena di Valerio, essenziale
nella scenografia, si concentra sul linguaggio e sui
personaggi, nel recupero minuzioso di quel dialetto
la cui perdita rappresentò per il poeta friulano
una delle grandi tragedie dell’Italia moderna
sia da un punto di vista culturale che antropologico.
Il Vantone rappresenta
da una parte un sincero atto d’amore verso Pasolini
e verso quella Roma genuina che ormai non c’è
più. “Stupenda e misera città
- scriveva di Roma il poeta di Casarsa ne “Il
pianto della scavatrice” - che m’hai insegnato
ciò che allegri e feroci gli uomini imparano
bambini, le piccole cose in cui la grandezza della
vita in pace si scopre, come andare duri e pronti
nella ressa. Stupenda e misera città che mi
hai fatto fare esperienza di quella vita ignota: fino
a farmi scoprire ciò che, in ognuno, era il
mondo”.
Lo spettacolo di Valerio rappresenta un’immersione
malinconica nel passato, in ciò che non siamo
più. Con l’amara consapevolezza che quella
Roma “stupenda e misera” ha lasciato spazio
ad una città come tante altre: “piccolo-borghesi,
meschine, cattoliche, impastate di inautenticità
e nevrosi”. [sabina
pisu]