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Raggiungere
il Teatro Bouffes du Nord, rilevato e ristrutturato
negli anni ’70 da Peter Brook e Micheline Rozan,
fondatori del “Centre International de 8 Créations
Théâtrales”, è una sorta
di pellegrinaggio per chi ama il teatro e uno dei
suoi maggiori rappresentanti del ventesimo secolo.
La circostanza vuole che si arrivi a piedi, venendo
da Rue Strasbourg-Saint Denis, dietro consiglio di
Rina, direttrice di una galleria d’arte contemporanea.
Si è colpiti dal susseguirsi di parrucchieri
africani, abiti, colori del continente del Sud del
mondo; gruppi di africani scherzano e ridono a voce
alta sui marciapiedi. Poi cominciano le vetrine dei
negozi con sari indiani coloratissimi, orecchini vistosi
e tessuti preziosi. Odori di Calcutta.
Infine, in cima alla strada compare lui: il teatro
Bouffes du Nord. Poteva scegliere un luogo diverso
lo sperimentatore teatrale inglese, che portava gli
attori a recitare nei più remoti villaggi africani?
Un architetto contemporaneo ha recentemente dichiarato
che «saranno i quartieri di confine a creare
nuovi stimoli culturali, dove diverse culture si toccano,
si contaminano, creando qualcosa di assolutamente
nuovo». Niente di più appropriato per
questo teatro, crocevia di mondi diversi, eppure così
simili nel desiderio di starsi accanto.
Brook e Rozane avevano deciso di lasciare il teatro
«esattamente com’era, senza cancellare
i segni lasciati da un centinaio di anni (il teatro
è stato costruito alla fine dell’Ottocento,
ndr). Farlo resuscitare nel più breve tempo
possibile. Doveva essere semplice, aperto, accogliente».
Un teatro che, secondo l’autore inglese «ha
nobiltà di proporzioni interrotte dall’apparenza
rude del luogo. Questi due aspetti ne costituiscono
l’insieme. Se fosse restaurato perfettamente,
la bellezza dell’architettura perderebbe in
qualche modo la sua forza e diventerebbe un limite».
Mostrando il tempo nelle pareti un po’ scrostate,
l’edificio palesa la capacità di saper
affrontare il tempo che passa con dignità,
rispetto delle proporzioni e del luogo (la scritta
in ferro riprende le forme del ponte della vicina
stazione).
Armonia, rispetto del passato e delle diversità,
sguardo verso il futuro e la forza dei due artisti:
il pregio della “Ville des lumières”.
[deborah ferrucci]
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Autore |
Peter
Brook, Marie-Hélène Estienne
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Regia |
Peter
Brook, Marie-Hélène Estienne |
Scene |
Arthur
Franc
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Costumi |
Alice
François
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Luci |
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Coreografie |
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Musica |
Raphaël Chambouvet,
Toshi Tsuchitori |
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di
Giovanna Gentile
Racconta il poema persiano di Farid Al-Din Attar
“La Conferenza degli uccelli”, che
trenta uccelli si misero in viaggio e per terminare
il loro percorso dovettero attraversare sette
valli, una più difficile delle altre. Peter
Brook e la sua assistente Marie-Hélène
Estienne, prendono per mano lo spettatore e lo
accompagnano nell'esplorazione della sesta valle
del cervello umano: quella dello stupore.
Con
una ricerca iniziata da “The man who”
(spettacolo precedente), il grande regista ha
voluto osservare, entrando a stretto contatto
con medici e pazienti, il comportamento imprevedibile
delle persone affette da problemi neurologici
(quelle che un tempo erano chiamati “pazzi”).
In “The Valley of Astonishment” la
ricerca si è concentrata sulle persone
per le quali il colore, la musica, le immagini
e le sensazioni sono in stretta correlazione,
creando interferenze (in gergo tecnico-scientifico
si parla di sinestesia). Cosa succede nel momento
in cui vivono in una società come la nostra,
che ragiona per categorie? In quale categoria
verranno messi? Quanto la diversità sarà
causa della sofferenza e quanto motivo di felicità?
Kathryn Hunter, Marcello Magni e Jared McNeill
- attori dotati di forte personalità scelti
da Brook -, rivivono tre storie: una donna capace
di ricordare in pochi secondi interi elenchi di
parole, un uomo che ha imparato a muovere e a
guidare il suo corpo con lo sguardo e alcuni medici
entrati a contatto con loro. Peter Brook è
riuscito a spiegare le patologie senza indicazioni
scientifiche: attraverso il gioco del teatro,
che vive di grande semplicità comunicativa,
le gioie e le sofferenze di queste persone arrivano
direttamente al cuore. Sono storie sorprendenti,
che colpiscono l'immaginazione. Il cervello è
una terra sconosciuta, le sue pieghe per alcuni
sono voragini vertiginose.
Il
teatro di Brook è un teatro potente, che
non impartisce lezioni borghesi sulla vita ma
che attraverso l'accoglienza e la condivisione,
invita a riflettere sulla ricchezza della singolarità
di ognuno di noi e sull'importanza dell'accettazione
sociale.
|
di
Deborah Ferrucci
La grazia è il segno distintivo della regia
di Peter Brook e MH Estienne. L’autore inglese
prende lo spettatore per mano e lo conduce nei
meccanismi della “La Valle della meraviglia”.
La memoria, attraverso la testimonianza di casi
umani fenomenali: la donna che ricorda tutti i
numeri (Kathryn Hunter), il ragazzo (Jared McNeill)
con in sensi unificati - la vista e la memoria
-, l’uomo paralizzato (Marcello Magni) e
il percorso creativo del musicista (Raphaël
Chambouvet). I medici sono lì a cercare
di dispiegare il mistero del cervello, il mistero
della vita stessa. Si riuniscono, discutono, prendono
appunti, osservano e intervistano i pazienti.
Ma cosa rispondere alla donna che ricorda tutti
i numeri ma che rivuole la vita di prima, di semplice
impiegata in un giornale e non quella di fenomeno
mediatico, con tournée serrate? E al ragazzo
che vede le persone come colori? Non è
più poetico associare una persona ad un
colore? Emerge la violenza del mondo scientifico:
perché sezionare la diversità? Non
si può semplicemente accoglierla e accettarla?
«You
can’t study a memory… No shape, no
weight» (Non puoi studiare la memoria, non
ha forma, non ha un peso). Si può «réduire
l’être humain à des details?»
(ridurre l’essere umano a dei dettagli?).
“La
Valle della meraviglia” si svolge come una
commedia scespiriana, con momenti di tensione
emotiva (la donna incalzata dal giovane medico
che tenta di metterla in difficoltà), di
ilarità e leggerezza secondo lo schema
dei “fools” (personaggi ritratti nella
quotidianità, momento ludico e terreno
dello spettacolo), di poesia (la donna che rivuole
la sua vita, il ragazzo che si interroga sul senso
della natura) e di musica nei momenti topici (il
piano e il flauto).
Ascoltare
la naturalezza del suono di un flauto di bambù
che gradualmente svanisce in un silenzio musicale,
la morbidezza dei versi finali citati dal ragazzo,
«a drop of rain» (una goccia di pioggia)
ed ecco che il movimento circolare dello spettacolo
si conclude. Tutti gli elementi dell’umano
si riuniscono armoniosamente: la razionalità,
l’emozione, il sentimento, l’anelito
verso la natura, l’infinito, l’invisibile.
Applausi scroscianti e infiniti del pubblico,
un’emozione collettiva sospesa nell’aria,
tre attori e due musicisti spontaneamente recitanti.
Una
coppia di signore uscendo dal teatro commenta
lo spettacolo dicendo di non conoscere bene l’argomento
dal punto di vista scientifico, eppure di aver
compreso tutto. Magia del teatro, magia di Peter
Brook, equilibrista dell’arte di unire e
sintetizzare, come fosse un alchimista, l’incomprensibile
e l’inafferrabile, con intensità
e delicatezza.
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Interpreti |
Kathryn
Hunter, Marcello Magni, Jared McNeill
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Produzione |
C.I.C.T./Théâtre
des Bouffes du Nord, Theater for a New Audience,
New York, Les Théâtres de la Ville
de Luxembourg
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In
scena |
dal
29 aprile al 31 maggio, Théatre des Bouffes
du Nord, Parigi; dal 7 giugno 2014 ad Amsterdam;
dall'11 al 14 giugno al Warwick Arts Centre
(Coventry/UK); dal 20 giugno al 12 luglio a
Londra; dal 5 al 7 settembre Musikfest Bremen,
Brême; dal 14 settembre al 5 ottobre Theatre
for a New Audience, New York;
dal 15 al 17 ottobre 2014 Forum Meyrin, Genève,
Suisse; dal 23 al 26 ottobre Festival de Otoño,
Madrid; dal 12 al 15 novembre Théâtre
d'Arras, Arras; dal 25 al 27 novembre Les Théâtres
de la Ville de Luxembourg; dal 10 al 14 dicembre
2014 Le Théâtre du Gymnase, Marseille |
Anno |
2014 |
Genere |
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