Unghie
laccate di rosso. Parrucche ordinatamente disposte
come in vetrina. Tacchi alti e un’alta piramide
di scatole. Tutte uguali, o quasi. Un cellulare che
squilla in continuazione. Un citofono che suona a
intervalli regolari. Un orologio che segna le sei
del mattino. La disperazione di una donna entra in
scena. Un andirivieni stanco ma nervoso. Il rituale
della preghiera recitata come una litania, a memoria,
senza espressione, quasi come se fosse un pensiero
da levarsi di torno. Monica Scattini fa sua la vita
di Kim, se ne impadronisce per poi regalarle autonomia.
Un testo, quello di Marco Calvani, che è un
abbozzo appunto, uno studio e che dello studio ha
tutte le caratteristiche. Kim è un trans, lo
si capisce subito dall’eccesso dei vestiti,
delle parrucche, del trucco. Dalle telefonate ricevute
e dalla disperazione di quelle fatte. Il pathos cresce
col crescere dell’angoscia della protagonista.
L’ultimo spettacolo della rassegna di teatro
omosessuale “Garofano Verde” accende una
piccola luce sul mondo dei transessuali. È
solo un momento, un breve istante in cui la realtà
solitaria e spesso sofferente di questi esseri umani
riaffiora dal buio in cui fatti di cronaca e pregiudizi
l’hanno relegata. I gesti nervosi, le richieste
di affetto, i deliri della coca si mescolano ai cambi
di parrucca, alla voce roca e all’inquietante
presenza di un rasoio sporco di sangue. Una donna
che non è ancora completamente donna. Un uomo
che sa di essere donna, da sempre, e che da sempre
odia l’uomo e ciò che di lui è
fisicamente il tratto distintivo. Drammaticamente.
Due identità allo specchio, ciascuna rivendica
la propria egemonia fino al finale, quasi a sorpresa.
Giù le scatole e giù anche il rasoio.
Amen.
[patrizia vitrugno]