Si
può condensare l'opera omnia (37 testi) del bardo di
Stratford-Upon-Avon, al secolo William Shakespeare, in soli
90 minuti? Fredrich Frankenstein urlerebbe «SI PUO' FARE!!!»
Gianfranco Funari invece «se po’ fa». Una
geniale compagnia di drammaturghi/attori americani (Adam Long,
Daniel Singer, Jess Winfield) ha reso possibile tutto ciò,
nell'atto unico denominato senza troppa fantasia “Tutto
Shakespeare in 90 minuti”.
Dopo aver registrato un
successo trentennale tra Stati Uniti e l’Inghilterra
nei teatri off prima di trovare casa stabile al Criterion
Theatre di Picadilly Circus a Londra e la prima nazionale
alla 64esima edizione dell'Estate Teatrale Veronese, la versione
italiana per la regia di Alessandro Benvenuti ha debuttato
alla Sala Umberto di Roma. Protagonisti della riduzione, ed
italianizzazione (anche eccessiva in alcuni frangenti) dello
spettacolo la coppia Zuzzurro E Gaspare, coadiuvati dal bravo
e poliedrico Maurizio Lombardi.
In 90 minuti i tre protagonisti
attraversano con irriverenza, umorismo grottesco ed in alcuni
frangenti sin troppo compiaciuto, l'intera produzione del
Bardo, tra vita ed opere, piegando la scrittura dell'Inglese
ai generi tra i più diversi. Esilarante la riduzione
dell'Otello in chiave rap (da solo vale il prezzo del biglietto
dell'intero spettacolo); la partita di calcio in cui Enrico
IV, Riccardo II, Enrico V, Re Giovanni, Enrico VI, Riccardo
III ed Enrico VIII si contendono la Corona; la rappresentazione
dell'Amleto reiterata in tempi sempre più stretti e
ritmi vertiginosi, per chiudersi con una rappresentazione
breve ed al contrario tutta da gustare.
Meno riuscita la versione
breve di “Romeo e Giulietta” ed altre parentesi
in cui la personalità televisiva di Zuzzurro e Gaspare
(sopratutto di quest'ultimo, eccessivamente sopra le righe
rispetto ai due compari), prende il sopravvento sul testo
drammaturgico che faceva della levità il suo punto
di forza.
Nel complesso uno spettacolo
altalenante, tutto giocato sull'immediatezza della percezione.
Alla fine resta il rammarico di aver gustato poco le pietanze
più prelibate e di sentire il peso indigeribile di
quelle meno riuscite.
[fabio melandri]