Più
che il paio di occhiali citato nel titolo, è
un fazzoletto. Presente in ognuna delle parti di questa
"Trilogia degli occhiali",
diventa il minimo comun denominatore che più
ricorda il teatro di Emma Dante. Perché nel
fazzoletto c’è l’atto dell’uomo,
quello vero, concreto, quotidiano. Gli occhiali sono
un vezzo, forse giusto l’elemento superficialmente
più evidente, ma alla fine meno pregno di significato.
Asciugarsi la bocca che sbava, lavare il corpo, raccogliere
un rigurgito di tosse.
Ogni
atto è un lavoro sul corpo. Uno è legato
a tre ancore, si contorce, sputa ed è sudato
("Acquasanta"). Un corpo è immobile,
statico, catatonico, che poi si sveglia, zoppica e
corre ("Il castello della Zisa"). Un altro
corpo è artritico, sbilenco, scoordinato, acciaccato
ma poi si scatena, balla, salta al suono di vecchie
canzoni del passato ("Ballarini"). Poche
parole nel secondo e nel terzo; tante, turbinose,
napoletane nel primo.
La
povertà, la malattia, la vecchiaia. I tre momenti
della trilogia abbozzano il tema, senza generare quel
caos di emozioni che il teatro di Emma Dante regala
abitualmente. È come se mancasse il respiro
profondo, l’intensità; o, meglio, la
profondità del suo racconto. È come
se ci si fosse fermati sull’uscio a sbirciare
l’inizio di qualcosa che promette, ma che poi
manca la parola data. È come se il sipario
calasse sulla storia all’improvviso, lasciandola
monca. [patrizia
vitrugno]