Scenografia
a sipario aperto e luci in platea sino alla fine dei due atti.
Spettacolo lungo, urlato, angosciato ed angosciante: Antonio
Latella firma “Un tram che si chiama Desiderio”
molto lontano dalla versione cinematografica di Elia Kazan che
si è soliti ricordare.
La storia è nota:
la vita di una coppia di New Orleans, Stella Du Bois (Elisabetta
Valgoi) e Stanley (Vinicio Marchioni), è turbata dall’arrivo
di Blanche Du Bois, la sorella alcolizzata e ninfomane di
Stella. Gli equilibri vengono sfasciati, sino al precipitare
degli eventi, che portano l’ormai poco desiderata ospite
alla follia e al ricovero.
Latella, senza cambiare
una sola battuta, stravolge il testo di Williams partendo
dal finale, quando Blanche entra nell’ospedale psichiatrico.
In un attimo trascina lo spettatore nei meandri della psiche
della donna, una strepitosa Laura Marinoni, affascinante e
sofferta, preda dei fantasmi di gioventù e della sua
personale realtà.
I protagonisti riescono
a dare un’impronta personalissima e riuscita ai ruoli
che furono sul grande schermo di Vivien Leigh e Marlon Brando.
Bravissimo Marchioni, che mai tenta di imitare il suo illustre
predecessore. Il suo Stanley è più animalesco
che carnale, la sensualità è tutta corporea,
senza chiaroscuri o ombre da bello e maledetto, spavaldo e
un po’ cialtrone con un vago accento polacco. Sopra
le righe, sempre sovraeccitata la Stella di Elisabetta Valgoi,
che si placa e normalizza solo con l’approssimarsi del
finale.
Si esce dai labirinti
mentali, creati dal regista, storditi e insieme appagati dall’universalità
tragica della femmina che si vede sfiorire, costretta a inventarsi
un proprio mondo, per superare il conflitto tra una sessualità
aggressiva e la necessità non sopita di tenerezza.
Non c’è nulla di tenero nel suo dramma, rappresentato
all’interno di una messa in scena (di Annelisa Zaccheria)
che diventa essa stessa drammaturgia, dove tutto è
portato al suo scheletro e gli oggetti perdono la loro funzione:
un frigorifero non è più solo un frigorifero,
una sedia non serve per sedere ma per appoggiare uno dei proiettori,
sempre lasciati bene in vista. La realtà è di
continuo trasfigurata dalla lettura che ne dà la mente
di Blanche.
Malgrado le quasi tre
ore, malgrado il fracasso, malgrado la violenza della perenne
tensione erotica tra i corpi in scena, a spettacolo finito
se ne vorrebbe ancora. Forse per masochismo; o forse, semplicemente,
per il piacere di un teatro che sa ancora svolgere il suo
potere catartico.
[francesca romana buffetti]