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Anno
2012
Genere
dramma
In
scena
fino al 24 arzo
Teatro Eliseo | roma
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Autore |
Ronald
Harwood |
Adattamento/Traduzione |
Masolino
D’Amico |
Regia |
Luca
Zingaretti |
Scene |
André
Benaim |
Costumi |
Chiara
Ferrantini |
Luci |
Pasquale
Mari |
Interpreti |
Luca Zingaretti, Massimo de Francovich, Caterina Gramaglia,
Peppino Mazzotta, Gianluigi Fogacci, Elena Arvigo |
Produzione |
Zocotoco
Produzioni |
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«Lei,
dottor Furtwängler, fece vedere a un ragazzino un mondo
bellissimo». Il senso ultimo di questo struggente testo
di Ronald Harwood sta forse tutto in questa frase, pronunciata
dal giovane tenente Wills, chiamato ad aiutare il maggiore Arnold
per stabilire le collusioni del celeberrimo direttore d’orchestra
con il regime nazista a guerra finita, nella Berlino del ’46.
Il maggiore americano,
ex assicuratore, vuole dimostrare a tutti costi che Wilhelm
Furtwängler è
stato un servo del partito di Hitler. Ma il direttore tedesco
è un artista amato e stimato dai compatrioti, non solo
nazisti, e il maggiore è un rozzo e ignorante yankee,
che non cerca la verità, ma solo «ragioni semplici».
Harwood, drammaturgo
e sceneggiatore avvezzo a contestualizzare storicamente in maniera
molto decisa i suoi testi (sua è la sceneggiatura premio
Oscar de “Il pianista”
di Roman Polanski), dà vita a un doloroso confronto tra
i due, che è confronto di uomini, culture, mondi.
Il manicheismo dell’americano,
una sorta di bestione vichiano poco più che alfabetizzato,
si scontra con le mille sfaccettature di una cultura europea
tutta giocata sulle sfumature e sulla difficoltà di
separare i vincitori dai vinti nel dopoguerra, di riconoscere
le colpe, di ascrivere condanne.
Così, sebbene il maggiore
desideri una condanna netta e decisa di Furtwängler anche
da parte dei collaboratori, primo fra tutti il tenente che
ha visto i genitori di origine ebraica uccisi dal regime,
riceve al contrario incredibili attestati di stima e di adorazione
per quell’artista che non riesce a vedere che come un
semplice uomo. Il maggiore ha di fronte un vecchio che ha
vissuto e sbagliato, come tutti gli uomini; i suoi collaboratori
vedono solo l’artista, capace di portare in mondi lontani
attraverso l’arte.
E’ maestoso Massimo de Francovich
nel portare in scena il dramma dell’artista costretto
a separarsi dal mondo per continuare a produrre musica, a
ripararsi in una torre d’avorio, per dimostrare l’assoluta
autonomia dell’arte dalla politica. Luca Zingaretti,
che assegna a sé la parte dell’inquisitore americano,
sceglie una regia asciutta e al servizio del testo, ben sottolineata
dalle luci indovinate di Pasquale Mari e le scene sobrie ma
per nulla povere di André Benaim.
Come tutti i grandi testi,
“La torre d’avorio”
si presta a molteplici interpretazioni e lascia immensi spazi
di riflessione. Uno spettacolo da vedere, a prescindere dall’incredibile
attualità del suo argomento.
[francesca romana buffetti
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