Un’ora che
vola a tu per tu con Fulvio Falzarano in un’andirivieni
di informazioni e immagini, riflessioni ed emozioni.
Un turbinio di impressioni multiformi che non danno
tregua allo spettatore e lo inchiodano alla sedia
con il garbo di chi vuol far ragionare senza imporre
forzatamente il suo punto di vista. Accade raramente
che a teatro ci si senta davvero in comunione con
chi sta oltre la quarta parete. E quando avviene il
piacere è per la condivisione e l’empatia
generalizzata che fa sentire egualmente complici.
Merito anche del testo "The
Agony and Ecstasy of Steve Jobs"
del contemporaneo americano Mike Daisey, tradotto
e adattato da Enrico Luttmann per la regia di Giampiero
Solari. Uno spettacolo critico, che mette alla berlina
l’icona del XXI secolo Steve Jobs mostrando
luci ed ombre di questo genio e dell’affascinate
impero tecno-mediatico.
Un teatro che si fa strumento di discussione viva
e che ha suscitato notevoli reazioni polemiche: la
Apple ha dovuto fare delle precisazioni, ma anche
Daisey si è visto costretto a dare conto di
alcune sue «interpretazioni artistiche»
non proprio rispondenti al vero, tanto che il testo
continua ad essere aggiornato e dettagliato. «Steve
è stato bravissimo, ci ha costretti ad aver
bisogno di cose che non sospettavamo nemmeno di volere»;
l’amara contropartita è però nelle
fabbriche, dove in nome del profitto 430.000 operai
sono trattati da "ingranaggio umano" e il
problema dei suicidi dei lavoratori si è affrontato
installando reti sotto i capannoni.
Supportato da frasi e immagini proiettate alternativamente
sul fondale, Falzarano (vestito di nero alla Jobs
e con una camicia hawiana a restituire meglio l’idea
della ricerca di un’identità collettiva
nell’ideale), si fa portavoce dell’autore
in un monologo non facile da gestire. Destreggiandosi
abilmente tra il didascalico e l’emotivo, l’attore
tocca punte di ironia che fanno sogghignare senza
distogliere dal punto. Una poltrona di pelle adagiata
al centro del palco su un tappeto circolare rosso
e le luci ben armonizzate in funzione del protagonista,
sono elementi commisurati alle reali necessità
della messa in scena. Una scelta registica alternativa,
che senza scadere nel pretenzioso o scivolare in digressioni
da teatro sociale, si prende finalmente la briga di
far riflettere tanto sulle personali debolezze di
fronte alla tecnica, quanto sulla spasmodica ricerca
di miti contemporanei al di là del bene e del
male. Un’eperienza da fare.
[benedetta corà]