La
Terra senza
racconta una storia italiana, ambientata in un paese
del Sud. È un viaggio interiore dei protagonisti
Ludovico (Carlo Greco) e Rosa (Gianna Paola Scaffidi)
per ritrovare il loro passato. Sono stati fratelli,
hanno condiviso l’amicizia, le esperienze, ma
come spesso capita, nell’età adulta le
scelte personali hanno determinato incomprensioni
e distanze.
Ludovico è fuggito dalla casa del padre, dalle
tradizioni, da legami a volte soffocanti. Rosa è
rimasta, ha affrontato una maternità senza
un compagno, si è sposata, ha “sposato”
le tradizioni familiari, è rimasta legata alla
casa del padre, al culto del cibo, alla cura e dedizione
per i componenti della famiglia. Ludovico è
il traditore di quel “lager”, come viene
da lui stesso definita la famiglia, traditore di Rosa
che rimane in quel lager.
Il dramma si apre con Ludovico in scena: in silenzio
si riappropria con lo sguardo degli oggetti del salotto
della casa familiare che deve vendere. Poi arriva
Rosa e la presenza fisica è un ritorno della
memoria. Compare Giacomo, figlio di Rosa e di un padre
che non è stato il marito di sua madre, morto
in quelle uccisioni misteriose che capitano nei paesi
del Sud. Lo spettacolo non affronta il tema politico
ma quello socio-affettivo tra i protagonisti. Rosa
cerca di trattenere Ludovico in questo suo piccolo
mondo, fatto di lenzuola pulite per gli ospiti, di
tanto troppo cibo, di orgoglio frutto della resistenza
alle avversità e alla condizione femminile.
Rosa cerca una fisicità con Ludovico, che di
nuovo fugge. Le scene sono intervallate da suoni ed
echi ancestrali, da una danzatrice avvolta in un telo
scuro, che si insinua fisicamente tra i personaggi
come un serpente. Tornare nei luoghi dell’infanzia
significa ritrovare i propri antenati, o dèmoni
da cui si è fuggiti?
Il testo di Anna Vinci è molto bello, mai banale,
forse a tratti i dialoghi sono così lunghi
che si rischia di perdere la bellezza delle parole.
La regia ha ritmo, sa dosare i silenzi e i dialoghi,
la scena con il testo. Avvincente la scelta di una
danzatrice come simbolo delle tradizioni del Sud.
Gianna Paola Scaffidi è Rosa, perfettamente
calata nel ruolo. Carlo Greco è bravo, ma a
tratti la sua interpretazione è recitata, come
direbbe “il giovane Holden” di Salinger,
gigioneggia: la recitazione ha la meglio sull’emozione,
a volte sembra persino rigido nel corpo, rispetto
alla veemenza delle parole; ma chissà, potrebbe
essere anche una scelta interpretativa dettata dall’imbarazzo
del protagonista nel tornare al passato. Il dramma
è circolare, finisce come inizia, con la stessa
musica del carillon dell’infanzia. Il finale
è aperto, come la vita. Un dramma che fa riflettere
sull’italianità, sulle fughe come esseri
umani, sulla difficoltà di affrontare il passato.
[deborah
ferrucci]