«Stop
self-pity. Forget and forgive» («Smettila di commiserarti.
Dimentica e perdona»). È il consiglio di un amico
ad un altro tradito dalla moglie, dramma umano della coppia
di protagonisti di “The
Suit” e dramma politico di un intero Paese,
il Sud Africa, ai tempi dell’apartheid.
Volendo giocare con il
linguaggio «for» (per) è la medesima radice
di «get» (ricevere) e «give» (donare).
Per-ricevere (amore) occorre per-donare? Quasi un suggerimento
al cuore sacro di ogni individuo in cui esiste comunque la
possibilità di trasformare quello che si è ricevuto,
odio o tradimento che sia, in un dono d’amore. Philemon
(William Nadylam) e Tilly (Nonhlanhla Kheswa) sono una giovane
coppia felicemente sposata nel Sud Africa dell’apartheid.
Lui è un marito amorevole e attento, fino a quando
l’idillio non è spezzato dalla scoperta del tradimento
di lei, in un giorno qualunque, di una mattina come tante
altre, nella camera da letto di casa, in cui trova un uomo
in mutande che scappa lasciando il suo abito, The Suit.
L’oggetto prende
vita, sarà il “benvenuto” ospite nella
casa degli sposi, oggetto-feticcio che diventa rappresentazione
dell’eterno dilemma che si cela dietro ogni tradimento
amoroso: la libertà di un individuo e il rispetto per
l’altro. La vendetta di Philemon costringe Tilly a trattare
l’abito come un essere vivente: lo lava, lo veste, lo
mette a dormire, mangia al tavolo con la coppia.
Nulla sarà come
prima, la gentilezza e le attenzioni saranno assenze distratte,
saluti frettolosi, la festa gioiosa un convito macabro con
lo/il “s-gradito ospite”, la fiducia smarrita
per sempre. Il per-dono di Philemon arriva troppo tardi, mentre
Tilly lo aspetta con le mani aperte sul grembo…
E’ bello pensare
che questa opera piena di grazia sia ambientata in un Paese
in cui Nelson Mandela ha avviato un processo di riconciliazione
tra due razze in conflitto e che venga rappresentata proprio
oggi che anche solo un confronto umano, senza pre-giudizi,
è così difficile.
La grazia e l’ironia
pervadono ogni singolo tocco della rappresentazione, dalla
scenografia alla interpretazione degli attori; la musica dal
vivo è armoniosamente intonata alla recitazione; Tilly
ha gesti morbidi e la voce di un usignolo inconsapevole del
male che arreca; l’amico di Philemon (Jared McNeill)
sussurra le note musicali con la stessa armonia con cui i
registi Brook-Estienne-Krawczyk dispongono lo spazio, gli
attori, le parole. Divertente l’interprete del vecchietto
rimbambito o del sacerdote che fa la predica e i musicisti
(Arthur Astier, Raphaël Chambouvet, David Dupuis) con
i cappelli che mimano le chiacchiere femminili all’ora
del tè: in pochi gesti, un universo umano. Teatro come
vita all’osso, estrema sintesi. Un’energia sottile,
un’arte invisibile, una “frequenza quasi impercettibile”,
sono lo stile di Peter Brook, fatto di ricerca, profondità,
vita, per una grazie ricevuta («for-get») che
dona al suo pubblico («for-give»).
[deborah ferrucci]