Quello
de “Il Soccombente”
è un mondo onirico, un viaggio psichico. La rielaborazione
registica di Nadia Baldi, che ne propone una versione
surreale, è una fedele riscrittura ossessiva
del romanzo di Thomas Bernhard. L’opera, pubblicata
nel 1983 affronta il tema dell'amicizia di tre pianisti
a Salisburgo: l'io narrante, Wertheimer e Glenn Gould
allievi di Vladimir Horowitz. Sebbene i primi due siano
eccellenti esecutori, quello che brilla per genialità
ed estro è Gould. Gli altri lo sanno, l’hanno
ascoltato mentre suona Bach, si accorgono subito della
sua superiorità e sconfitti abbandonano per sempre
la musica.
Mentre
l’io narrante accetta con coraggio l’addio
al pianoforte, Wertheimer non solo rinuncia del tutto
alla musica, ma soccombe alla vita, suicidandosi;
è lui il Soccombente, colui che si è
fatto vincere dalla debolezza dell’invidia,
dal non riuscire ad essere. E sulla scena, al centro
della quale una seggiola verde da barbiere segna il
confine fra conscio e subconscio, i sentimenti di
rimpianto sono tangibili su un apparente sfondo scuro.
In scena un uomo di schiena: è l’io-narrante
(Roberto Herlitzka), che apre il monologo sul tempo
trascorso, su quello che ha perduto o rifiutato. Un’autobiografia
forse, una confessione probabilmente; un personaggio-scrittore,
il Bernhard autore, narratore. Sulla seggiola da barbiere,
di schiena una donna-fantoccio (Marina Sorrenti),
un personaggio di cui non si ha traccia nel romanzo
di Bernhard ma che nella regia della Baldi potrebbe
simboleggiare il subconscio. Ha capelli vaporosi e
chiari che le coprono il volto, indossa un vestito
bianco e scandisce il passato remoto del verbo “pensare”.
Tutto è perturbante. La stessa donna è
la coscienza del narratore, la memoria pianistica,
la sua disperazione, inquieta. Sembra viva quando
si libera dalla postura immobile, somigliante a una
bambola meccanica quando s’inerpica sulla lavagna
del fondo scenico, per scarabocchiarla. Nella parola
assillante del personaggio-narratore, perfino nella
musica di Bach emerge l’estetica del perturbante.
L’io-
narrante rivive i momenti passati con gli amici, ne
analizza chirurgicamente i caratteri, la filosofia
e si prende gioco degli aforismi di Werheimer, come
se volesse rinvenire nei ricordi un impulso, una spiegazione.
E si arrovella anche lei/lui. Lui che è la
giuntura per gli altri, il punto esatto dove il passato
tocca il presente, in un luogo senza tempo. Le lampade
pendono dal soffitto, hanno una luce calda quando
si parla del genio Gould l’unico a ricreare
il Goldberg di Bach, che sta al suo Steinway dodici
ore ininterrotte, che adora la parola “autodisciplina”
e odia “imprecisione”. Diventa verde freddo
quando si palesa il pensiero di Wertheimer, della
morte, del suicidio, della sconfitta. Altamente sviscerata,
quest’opera misantropica è il prodotto
di un lavoro enorme, che va dalla scenografia raffinatissima,
agli adeguati arrangiamenti musicali di Marco Betta,
fino agli attori a cui va l’elogio più
grande: a Roberto Herlitzka per la magistrale interpretazione
e a Marina Sorrenti per la capacità espressiva
del corpo.
L’esistenza
problematica dei personaggi, quasi beckettiani, crea
nella pièce lo scoglio più duro: il
testo pretende di essere conosciuto a fondo, altrimenti
si rischia di cadere in fraintendimenti. A volte ci
si perde dietro le movenze della donna-coscienza e
ai suoi laceranti graffi di gesso sulla lavagna; ci
si perde nel soliloquio infinito dell’uomo,
nel suo volto gigante proiettato sulla parete nera
della scena. L’affollamento di bellezza ed estraneità
richiede preparazione, altrimenti di fronte al monologo
di Herlitzka si rischia di non cogliere la raffinatezza
di un’opera colta e visionaria. [serena
giorgi]