Ottant’anni
ma non li dimostra, anzi: sostiene che la vecchiaia
può essere anche bella. Paolo Poli torna a
Roma col suo ultimo spettacolo Sillabari
e per due ore tiene la scena senza sentirne il peso.
Vorticosi cambi di costume, siparietti comici, gag
ironiche e canzonette irriverenti e caustiche sono
i pezzi che compongono il puzzle dei racconti dedicati
da Goffredo Parise all’Italia degli anni ’40
e ’60.
Brevi quadri della piccola borghesia italiana tra
il fascismo e il boom economico che l’artista
reinventa col suo ingegno, donandogli dignità
drammaturgica. Quelle dipinte dal grande attore toscano
sono per lo più figure grigie e un po’
malinconiche: una sfilata di personaggi dalle vicende
singolari narrate con maestria e rese vive e uniche
grazie anche ai costumi quasi espressionisti di Santuzza
Calì. Si passa dai servitori turchi alle attempate
signorine con i capelli bianchi, dalle donne fascinose
alle zitelle acide, in cerca di marito, svampite e
innamorate, un po’ dive sul viale del tramonto.
Il capocomico è circondato da una preziosa
corte di ballerini-attori-mimi che con la loro notevole
espressività corporea danno vita a piccoli
teatrini, conditi dalle spiritose coreografie di Alfonso
De Filippis. Le movenze e la gestualità dei
quattro esuberanti danzatori - i bravi Luca Altavilla,
Alberto Gamberini, Giovanni Siniscalco e lo stesso
De Filippis – traggono ispirazione da quella
tipica del cinema del dopoguerra.
Su tutto dominano le straordinarie scene del grande
Emanuele Luzzati che, col suo tratto inconfondibile,
rimescola frammenti dell’iconografia della prima
metà del Novecento ispirate a De Chirico, Savinio
e Morandi.
Paolo Poli è padrone di mille identità
ma resta comunque sé stesso.
[patrizia vitrugno]