Claustrofobia.
È la prima cosa, la prima emozione che prende
la bocca dello stomaco quando si alza il sipario su
"Scarti nobili", il monologo di Roberto
Agostini ispirato alla vita di Beatrice Cenci, nobile
romana del 600. Le luci si accendono sul volto dell'attrice
e capisci di avere di fronte una donna che ha subìto
un danno. Gli occhi, le mani, i muscoli contratti
e gli scatti nervosi dicono più delle parole,
che pure sono pesanti come pietre.
Beatrice è rinchiusa in una angusta prigione
che l'ha sottratta al mondo; ma è solo la libertà
fisica che le hanno tolto, perché l'anima era
prigioniera da sempre. Il padre le aveva rubato l'innocenza
dell'infanzia, abusando del suo corpo e violentando
la sua mente con un'ipocrita esistenza da fervente
famiglia cattolica. Solo una facciata. Passato e presente
si mischiano. Per Bea c'è un fratello Giacomo,
drogato, che muore di overdose e una madre adottiva
che si fa complice silente della brutalità
del marito. Infine la consigliera spirituale di Beatrice,
che non la sa capire e, anzi, ne diverrà carceriera,
barattando la sua fragile vita con la ricca eredità
del padre. "Il coraggio non mi manca", ripete
ossessivamente Beatrice, mentre ripercorre le tappe
che l'hanno condotta in quel bunker solitario. Il
coraggio non le manca e, con quello, sceglie la sua
libertà: ucciderà il padre carnefice,
conficcandogli un chiodo nell'occhio e uno nella gola,
dopo averlo drogato.
In una stanza spoglia e buia, per terra solo l'acciaio
freddo dei chiodi, per cinquanta minuti Annalisa Picconi
si muove e parla; alla sua suora carceriera ma in
verità a se stessa, al pubblico, al mondo,
per raccontare una storia di dolore e morte, ma con
parole delicate e occhi profondi, che lasciano l'amaro
dentro e un infinito senso di impotenza.
[marina viola]