Se
Shakespeare avesse voluto immaginare una versione
rock del suo “Romeo e
Giulietta” l’avrebbe immaginata
così: atmosfere cupe, toni declinati dal viola
al nero, visi bianchi con grandi occhi scuri.
L’accostamento a Tim Burton è immediato,
oltre che manifestamente voluto dallo stesso regista.
Giuseppe Marini disegna in questo modo una tragedia
nuova: dipinge i protagonisti con tocco leggero, lasciando
che ciascuno di essi prenda corpo e si definisca autonomamente
e compiutamente. La vera natura dell’amore,
la freschezza, la rapida intensità di quei
momenti sono nei gesti e nelle parole di Romeo e di
Giulietta, vestiti di un amore che è “troppo”.
I giovanissimi protagonisti Lucas Waldem Zanforlini
ed Eleonora Tata riescono a incarnare i tumulti della
passione della loro età, senza stonature. Ognuno
di essi si concede il proprio spazio, assapora le
parole, facendole proprie e restituendole al pubblico
senza toglierne l’elegante poesia. Ne è
un esempio Mercuzio nel racconto della regina Mab,
grazie alla vibrante interpretazione di Mauro Conte.
Il testo, mirabile ma difficile da recitare senza
essere declamato, emerge qui in tutta la sua bellezza,
attraverso la traduzione fedele alla rima di Massimiliano
Palmese.
In
quasi tre ore di spettacolo la vita dei due innamorati
di Verona appassiona lo spettatore come se non ne
conoscesse l’epilogo, anche se tra i due atti
il primo è certamente più riuscito.
Un balcone che diventa teatrino per ospitare la famosa
scena; una balia (la bravissima Sonia Barbadoro),
col vizietto di alzare spesso il gomito; frate Lorenzo
che sembra pattinare, un po’ sensale un po’
Mago Pancione interpretato da Marco Grossi, l’ultimo
intenso valzer della morte. A impreziosire lo spettacolo,
l’ottimo lavoro ai costumi di Mariano Tufano:
tanti, curati nel dettaglio, gotici. Uno nuovo Shakespeare
per una tragedia nuova: non riletta né ripensata.
Diversa, originale, sottilmente bohemien.
[patrizia
vitrugno]