Amare
un figlio e volerlo proteggere. Amare un figlio e
desiderare che la sua vita sia migliore. Amare un
figlio ed esigere rispetto e dedizione. Amare però
anche se stessi, la propria storia, le proprie origini
al punto da non vedere altro, da non capire cosa succede
nella propria casa, da non accorgersi che quel figlio
in realtà è un estraneo. Si aggiunge
uno zio-amico fraterno in ciabatte, perennemente davanti
alla tv che accende come un cane rabbioso e spegne
gettando acqua sul fuoco. Discussioni-iperbole su
ciò che è stato o su quel che sarà.
Personaggi rinchiusi in una casa-garage: buia, sporca,
polverosa. Umanità distratte e distrutte, appese
a un filo sottile che vivono di espedienti, ma che
sognano una nuova vita per il “cucciolo”.
Alessandro
Gassman è Roman, un romeno in canottiera e
abiti griffati, che vive a Roma da anni. Il figlio
Cucciolo (la bella rivelazione Giovanni Anzaldo),
è il suo mondo: vi concentra il futuro, sarà
lui che segnerà il definitivo riscatto di una
vita vissuta fra traffici illeciti e amicizie discutibili,
in una casa frequentata da sadici papponi (come lo
strabordante Matteo Taranto) e tenere prostitute (simboleggiate
dalla delicata Natalia Lungu). Tra di loro Geco (un
Manrico Gammarota un po’ troppo urlato) che
nel suo pugliese esagerato fa da ponte tra Roman e
il figlio. Geco urla, gesticola, è eccessivo
in tutto, anche nei sentimenti: fra i tre c’è
un legame speciale, un patto tra uomini, un “amore”
a loro modo sincero.
Alessandro
Gassman costruisce uno spettacolo duro, forte, difficile
da digerire. Una storia attuale, quindi ancora più
drammatica. La tensione è sempre alta, tocca
sentimenti conosciuti: la paura del diverso, l’amore
per i figli, l’impotenza di fronte agli scherzi
del destino. E proprio uno scherzo è Che, l’amico
tossico ma poeta, uno straordinario Sergio Meogrossi
che ha in sé quell’apatia tipica di chi
guarda la vita dal di fuori, l’estraneità
dei cosiddetti paradisi artificiali, e quella scaltrezza
di chi in questo mondo sa che è necessario
lottare per sopravvivere.
Un climax ascendente che purtroppo perde un po’
della sua forza nel finale: incomprensibilmente lungo.
[patrizia vitrugno]