È di scena
un sogno, un viaggio onirico condiviso da otto personaggi:
ognuno appare col proprio peluche, per distendersi
su morbidi materassi di diverso colore. Mille immagini
si sovrappongono nei racconti sognati dagli attori
a testimoniare la propria esperienza. Chi sogna guerre
e personaggi mitologici, chi il picco dello spread,
chi i nostalgici spot pubblicitari anni ’60.
Ma qualcosa li sveglia di soprassalto: un gigante
ratto piovuto dal cielo.
Dall’idea
ciclopica di Claudio Longhi, allievo di Luca Ronconi
e docente di Discipline dello Spettacolo all’Università
di Bologna, nasce il progetto “Il
ratto d’Europa: per un’archeologia dei
saperi comunitari”. Lo spettacolo
aggrega in modo del tutto visionario e acuto un vasto
copione di tematiche: la scrittura teatrale è
anche sociologica, antropologica e teorica, a volte
troppo didascalica ma esaustiva fino ai più
piccoli dettagli. La stravagante struttura drammaturgica
parte dal fascino della mitologia greca, passando
attraverso la nomenclatura delle 50 guerre più
cruente della storia europea, per arrivare alle drammatiche
questioni economiche. Un excursus ben studiato che
vede più di 600 partecipanti e 100 realtà
romane coinvolte, fra scuole e associazioni culturali,
con il solo obiettivo di suggerire alla società
civile un modello di Unione Europea.
Dopo il risveglio improvviso,
gli otto personaggi devono eseguire un compito complesso
ma necessario: salvare l’Europa. E come? Superando
sette prove. “Il Gioco senza frontiere”
è aperto, la sfida è di dare un’identità
ormai smarrita (rapita appunto), a questo continente
troppo a lungo sparpagliato. C’è la prova
della lingua e dei confini, la prova della storia
e degli sport. Con il grottesco delirio del gioco
si forma una squadra sempre più solida e combattiva.
Una metafora immensa in cui gli otto attori rappresentano
otto diversi paesi, diversi nelle loro moltitudini,
ma uniti per vincere. Man a mano che gli attori superano
le prove, la sceneggiatura prende forma, così
come la scenografia che si spoglia e si riveste sempre
di più, fino a erompere sui palchetti del teatro,
dietro le quinte, in mezzo al pubblico. Le corde (simboleggiano
i confini), si allungano sul perimetro della platea
e qualcuno viene pescato dalle prime file; c’è
chi sbuca dal loggione centrale e chi declama la propria
battuta in mezzo al pubblico frastornato.
Uno spettacolo nello spettacolo,
che parte e prende consiglio dalla platea. Un’opera
complessa, polifonica, che si avvale anche dell’aiuto
del Gruppo da camera del Conservatorio “Santa
Cecilia”; una drammaturgia sul sapere, dalla
danza al recital, dal talk show all’inchiesta
giornalistica (l’intervento dell’ex ministro
all’integrazione Cécile Kyenge ne è
un esempio). Si parla di tutto per arrivare brechtianamente
a sciogliere il nodo del problema: la prova più
ardua è nella costruzione dello spettacolo
così ricco e fin troppo articolato, che approfondisce
qualsiasi disciplina, anche la più ordinaria.
Il copione è uno scioglilingua che avrebbe
messo in imbarazzo anche l’attore più
preparato. Bravissima Diana Manea, col numero 6 a
simboleggiare la Repubblica Ceca, a cui va un elogio
particolare per la magistrale interpretazione; divertentissimo
Lino Guanciale a rappresentare la Francia. La difficoltà
di comporre e scomporre la scena con scaffali, funi
d’acciaio, pile di giornali accatastati, cambi
e scambi di costumi fa di quest’opera un kolossal
in cui la scelta degli attori e dei ruoli è
fondamentale.
Si percepisce un grande
lavoro attoriale, lo sforzo nell’uso della lingua
e la capacità fisica. Una prova durissima brillantemente
superata, frutto di un’idea necessaria che potrebbe
rendere possibile il sogno di molti.
[serena giorgi]