“Qui
e ora” è cinismo metropolitano,
schianto tra due moto sulla scena, scontro di classi
sociali. Un banale incidente diventa terreno d’impatto
fra un conduttore radiofonico di successo (Valerio
Mastrandrea) e un probabile impiegato (Valerio Aprea)
di un quartiere periferico di Roma. Come in “Aspettando
Godot” di Samuel Beckett, i protagonisti aspettano
un’ambulanza che non arriverà mai. È
il 2 giugno, sono tutti impegnati altrove. Strana
contraddizione, il titolo “Qui
e ora” suggerirebbe una vita
vissuta nel presente, nello spazio, in relazione con
le altre persone. Falso. I cellulari imperano. Il
conduttore Aurelio Sampietri, seppure ferito, conduce
normalmente la sua trasmissione di ricette di cucina;
l’impiegato Claudio Aliotta, parla al telefono
con la madre. Nel mezzo un vomitare addosso all’altro
stereotipi di classe. L’impiegato è una
persona mediocre, fannullona, ripiegato su se stesso,
frustrato, con una vita familiare spezzata, divorziato
e un figlio psicologicamente disturbato; l’uomo
benestante è dipinto come un esibizionista
di benessere, una macchina vistosa, finti problemi
e come un falso conoscitore delle vite degli altri.
Lo spettacolo
dà voce alla complessità della vita
metropolitana, al continuo vivere gomito a gomito,
che spesso stride, quasi “costringe” stili
di vita diversi a confrontarsi quotidianamente in
modo distruttivo, fino all’estremo. Si arriva
al finale quasi rinfrancati della distruzione: quando
la rapidità, il produrre a vuoto sostituisce
la relazione umana, l’altro è percepito
come fastidio non come ricchezza, ma come una moltitudine
di cavie in una gabbia troppo piccola. Sulla scena
il tutto avviene lentamente (strano paradosso), sotto
traccia, talvolta con parolacce ma con buona dizione,
in modo teatrale.
La trama risente
di poca profondità, accenna, ma non affonda,
offre uno scatto dell’odierna commedia umana
ma non mette il dito nella piaga, non indaga le motivazioni,
mostra in superficie: sembra quasi lasciare al pubblico
questo compito. Sarà la commistione tra generi
diversi: televisione, cinema e teatro a produrre questo
risultato, quando invece se il registro è solo
teatrale c’è sintesi della vita e profondità?
Il dubbio permane durante tutto lo spettacolo e ci
si chiede quale possa essere il ruolo del teatro oggi:
se possa bastare limitarsi ad accennare una storia,
quasi timidamente, con il rischio che il messaggio
sia contingente, “qui ed ora”, oppure
se si voglia lasciare una traccia, un messaggio universale,
che resti nel tempo. Il finale tenta una via di profondità,
quasi a riscattare alcuni momenti colloquiali che
fanno perdere tono allo spettacolo.
Mastrandrea si
conferma un bravo interprete, si cimenta con stili
diversi con competenza, impegno e passione. Anche
Aprea in questi anni ha mostrato mille volti: il Leopardi
sfigato in “Tutti
Pazzi per amore”, lo sceneggiatore
insensato in “Boris”,
solo per citare quelli più popolari. Un vero
attore, talmente versatile e a servizio del ruolo
che interpreta, che a volte quasi si fatica ad individuarlo.
Si ride, ci s’immedesima e resta un’amara
riflessione. Forse è “ora” di trarre
delle conclusioni, “qui”.
[deborah ferrucci]