“I
pugni in tasca” a teatro. Una scelta
contemporanea, visto l'argomento trattato nel film
di Marco Bellocchio, datato 1965: il dramma della
sopravvivenza. In una villa vive una famiglia borghese,
composta da una madre (Aglaia Mora) cieca e da quattro
figli. Augusto (Fabrizio Rongione, una dizione accidentata),
il maggiore, sente il peso della famiglia sulle spalle
ed attende il momento di poter lasciare tutto per
sposarsi con la fidanzata. C'è poi Leone (Giovanni
Calcagno), il più giovane dei fratelli, epilettico
ed incapace di ragionare; Giulia (Ambra Angiolini),
esibizionista con la tendenza alla morbosità
nei riguardi di Sandro (Pier Giorgio Bellocchio),
fratello con una mente seppur lucida, anch'essa malata.
Il suo raziocinio è atto a progettare diabolici
piani per sopprimere i familiari più scomodi.
E ci riesce: prima la madre, poi il fratello Leone.
Questo in sintesi il film.
Sul palcoscenico la regista
Stefania de Santis tenta di portare all'attenzione
del pubblico l'asfissiante emotività dei fratelli,
inserendoli in una scenografia (curata da Daniele
Spisa) che riproduce nel miglior modo possibile i
vari livelli della villa. Eppure, nonostante le buone
intenzioni e la super-visione di Bellocchio padre,
il progetto lascia interdetti. Gran parte dell'attenzione
è puntata sui due protagonisti, Bellocchio
e Angiolini. Nei loro dialoghi, nei corpi che si attraggono
e respingono e nella tensione che porterà all'omicidio
e all'incesto, non c'è la scintilla, mai. Il
miracolo del teatro non si compie. Si segue lo spettacolo
per osmosi. Manca quell'unione recitativa che eleva
la semplice lettura del testo ad interpretazione.
A questo si aggiunge un'altra difficoltà tecnica:
le voci degli interpreti si disperdono al semplice
tossire del pubblico. Difficile perciò seguire
uno spettacolo che pare ancora legato alla fissità
cinematografica e con un cast ancora da amalgamare.
Marco
Bellocchio ha spiegato così il passaggio dalla
sala cinematografica a quella teatrale: «Io
oggi penso a “I pugni in tasca” come a
un dramma della sopravvivenza in una famiglia dove
l’amore è del tutto assente. Si vive
in un deserto di affetti senza nessuna prospettiva
per il futuro, una situazione di immobilità
assoluta che fa pensare a un carcere o a un manicomio
senza speranza di guarigione, rieducazione, riabilitazione,
rinascita».
[valentina venturi]