Celestini, detenuto in carcere
nell’Italia di oggi, si immagina di scrivere un discorso
con Giuseppe Mazzini: grazie a quello ripercorre i volti e
gli avvenimenti dal 1848 fino alla creazione del Regno d’Italia.
E’ un racconto lontano dalla retorica celebrativa istituzionale,
trasmette una storia fatta di tentativi, fallimenti e compromessi.
Una storia di donne e uomini, scesi dal piedistallo della
mitologia e mescolatisi al resto dell’umanità.
La democrazia forse è proprio questo, comprendere che
tanti volti senza nome sono morti in nome di un ideale e una
speranza; ma poi la storia ricorda solo quelli più
carismatici, il resto è un «niente di un niente
che diventa altro niente». Allora Giuseppe Garibaldi
è quel «poncho colorato da cantante cileno»,
Papa Pio IX un uomo che rabbrividisce al vento della ribellione
nelle varie parti d’Italia e chiude le porte perché
fa troppo freddo. Nel discorso visionario compaiono anche
un negro africano che si è fatto amputare il pene per
evitare di essere oggetto di barzellette sconce da parte del
‘secondino merda’ e un cane con tre gambe. L’ironia
dosata in modo così sapiente restituisce realtà
alla storia, le toglie il velo dell’illusione e dell’esempio
irraggiungibile. Pisacane era un idealista viaggiatore, Mameli
un uomo di poche parole nonostante fosse l’autore dell’inno
nazionale, Orsini nonostante il cognome nobile un sovversivo,
Mazzini un fantasma che si aggirava per l’Europa («sempre
vestito di nero, magro»).
Una rivoluzione, quella italiana,
che sfociò nel compromesso della monarchia, senza l’ausilio
della ghigliottina come in Francia, passando per la guerra
di Crimea per poter arrivare alla Repubblica. Pure i francesi
sono lontani dalla grandeur di liberté, égalité,
fraternità: il re Luigi Bonaparte sosterrà il
Papa contro i rivoluzionari, proprio lui figlio della patria
della Rivoluzione.
Celestini è ironico
senza offendere, invita alla riflessione, il suo monologo
di quasi un’ora e quaranta minuti senza interruzioni
incolla il pubblico alla sedia, l’attenzione non cala
mai. La scenografia è minima, lo spettacolo è
nel testo, nell’interpretazione, nel senso.
Celestini prima dello
spettacolo è fuori dal teatro, parla tranquillamente
con alcuni amici: come facevano gli artisti all’inizio
della carriera, per vivere il contatto con il pubblico, perché
sono pubblico. Già. Perché prima del ruolo ognuno
di noi è una persona, un cittadino di Pro patria.