È sufficiente
che si apra il sipario e si accendano le luci sul
volto di Giulio Scarpati, per riconoscere la cifra
registica di Alessandro Gassmann... Ma partiamo intanto
dalla storia: tratta dal romanzo “L’oscura
immensità della morte”
di Massimo Carlotto, “Oscura
immensità” parla di giustizia,
vendetta, perdono e pena. E lo fa da subito, dalle
prime battute disperate di un padre e marito, Stefano
Contin (un davvero bravo Giulio Scarpati) al quale,
durante una rapina, hanno ucciso il figlio di 8 anni
e la moglie. Lo troviamo nella sua umile casa nel
giorno in cui gli è stata recapitata una lettera,
scritta dal colpevole, che chiede il perdono necessario
per ottenere la grazia perché malato di cancro.
E nel secondo spazio scenico troviamo l’ergastolano
Raffaello Beggiato (un troppo urlato Claudio Casadio),
in cella, che racconta la ripetitività di giornate
e notti. Da qui scaturiscono domande coinvolgenti,
che fanno riflettere e immedesimare lo spettatore,
che inizia a chiedersi cosa farebbe se si trovasse
nei panni del povero Contin.
Gassmann dirige
gli attori con discrezione, costruendo uno spettacolo
su un testo che tocca e interessa; ma se si ritorna
sulla cifra stilistica, si comprende che questa volta
non è un plus. Il tipico velatino dietro cui
si snodano gli ambienti che compongono la scenografia
e si proiettano i video e le foto che sottolineano
(a volte troppo didascalicamente), i passaggi dello
spettacolo, è ormai usuale, tanto da diventare
uno stile che corrisponde appieno a Gassmann (lo si
ritrova anche nell’ultimo “Riccardo
III” in programmazione al Teatro
Argentina di Roma).
In “Oscura immensità”
la regia è riconoscibile al punto da chiedersi:
perché non osare e allontanarsi dal conosciuto?
Perché non stravolgere il già apprezzato?
Che sia scarsità di coraggio non è dato
sapere, di certo diventa una tara per “Oscura
immensità”, che dalla sua ha invece la
forza del testo e della storia raccontata.
Un lavoro decisamente
apprezzabile, ma solo per metà.
[patrizia vitrugno]