“moro:
la strage di via Fani”. Con la
lettera minuscola, perché è anche un verbo.
Destinato a morire, quindi. Questo è ciò
che Steve Pieczenik, consulente del Dipartimento di
Stato USA nel 1978, scrive nel suo libro e riafferma
in un'intervista rilasciata a Giovanni Minoli su Radio24
lo scorso settembre. Pieczenik dichiara di essere stato
mandato in Italia, per allontanare definitivamente l'ipotesi
di un Governo che includesse anche la sinistra, sacrificando
proprio il politico democristiano.
A 35 anni dalla morte di
Aldo Moro ancora tanti interrogativi rimangono sospesi,
al pari dei fatti che hanno scandito i periodi storici
più neri della storia italiana. Ulderico Pesce
compie una ricerca documentale collaborando, per la
messa in scena di “moro: la strage di via Fani”,
con Ferdinando Imposimato, giudice istruttore a Roma
che nel 1983 aveva depositato la prima e la seconda
sentenza del processo sull'omicidio dello statista.
Il regista e interprete, ripercorre la storia dal
punto di vista di Ciro, il fratello minore di Raffaele
Iozzino, agente della scorta di Moro, ucciso nella
strage di via Fani il 16 marzo del '78, insieme agli
altri agenti. Un punto di vista che avvicina umanamente,
alle famiglie delle persone coinvolte. Il racconto
prende forma quando Ulderico, nel ricomporre il puzzle,
mette insieme tasselli che l’opinione pubblica
ha conosciuto poco alla volta, informazioni spietatamente
ostacolate e per le quali hanno sacrificato la loro
vita altre persone, come il fratello dello stesso
giudice Imposimato. Nel ricomporre il puzzle le responsabilità
sembrano più definite: dalle auto blu della
scorta non blindate, alle armi che dovevano essere
necessariamente lasciate nel portabagagli, passando
per i mancati soccorsi quando invece si conosceva
perfettamente il luogo del sequestro. E proprio su
quest'ultimo fatto lo scorso febbraio Giovanni Ladu,
sottufficiale della Guardia di Finanza, che ai tempi
aveva preso parte all'operazione di monitoraggio dell'appartamento
di via Montalcini da parte dei servizi segreti, ha
dichiarato: «Tutti sapevano ma nessuno ha fatto
niente per liberarlo».
Risuonano in testa le ultime
parole di Ulderico-Ciro che, uscendo di scena urlando,
si scaglia contro gli italiani «incapaci allora,
come oggi, di reagire»… A fine spettacolo
si accendono le luci in sala e Pesce rimane a discutere
con gli spettatori. L'impegno civile del suo teatro
va oltre il palcoscenico; lo testimoniano le petizioni
che accompagnano i suoi spettacoli (per esempio “Asso
di monnezza” e “A come amianto”).
Urla
questo teatro e pone lo spettatore di fronte a delle
responsabilità civili. [giovanna
gentile]