Buio.
Le note del pianoforte di una musica anni ’40,
l’occhio di bue sul mito, la sagoma di una diva
avvolta da una vestaglia bianca con collo di pelliccia.
Il mito è servito. Lo spettatore sente di essere
in un tabarin, nella locanda dell’Angelo Azzurro,
vede quei soldati che ascoltando e vedendo Marlene
Dietrich, per un attimo dimenticavano le preoccupazioni
della guerra e sognavano.
Lo spettacolo “Marlene D.” è un
tuffo in atmosfere rarefatte e di sospensione, un
abbandono ad una musica piacevole, ad una parentesi
di intrattenimento. Marlene non era solo il mito era
anche una donna estremamente vitale, così la
rappresenta Quince, manager di se stessa, “crucca”,
tedesca, che pretende efficienza, pulizia, precisione;
che si accende la sigaretta, che non risponde subito
al telefono, scherziamo, una diva non può,
sono gli altri che insistono; si versa whisky con
nonchalance e alza gli occhi al cielo pensando a tutti
i mortali che bramano un suo guardo, una sua attenzione;
Marlene si burla di tutti quelli che non si scatenano
per assecondare i suoi desideri, i suoi capricci.
Come una domatrice di un circo, quello dello spettacolo,
in cui tutti si affannano per ufficializzarne il mito.
Quince è perfettamente a suo agio. All’inizio
sembra ancora freddo, poi negli intermezzi tra una
canzone e l’altra, in cui cerca la donna nella
diva, si scalda, si abbandona al personaggio e si
trasfigura. È lei.
Bellissimi i costumi, esatta riproduzione di quelli
della diva. Le canzoni sono splendide, l’interpretazione
di Quince è intensa e divistica come quella
di Marlene, il pianista è bravo, completamente
immerso nel rapporto con Marlene/Quince. Lo spettacolo
è armonioso, con un’alternanza misurata
tra le canzoni più celebri e gli intermezzi
divertenti della diva. Un unico appunto, la canzone
“Lili Marleen” sarebbe stata più
coinvolgente in tedesco, anche se Quince si è
ispirato ad una interpretazione inglese della Dietrich.
[deborah ferrucci]