La
marionetta bianca
è un paradosso: un monologo a tre. Tre persone
per una sola voce.
Gli attori Giulia Nervi, Monica Mariotti e Carlo Studer
sono una sorta di emanazione triplicata della stessa
persona. La difficoltà risiede nel riuscire
a concentrare l’attenzione su quello che cercano
di esprimere.
Il testo risulta così denso di pensieri, complessi
e articolati, che forse si presterebbe più
facilmente alla lettura che alla rappresentazione
scenica. Lo spettacolo richiede di essere masticato,
assimilato, digerito con grande calma.
Nel seguire la performance risulta invece difficile
trattenere qualcuna di queste sensazioni così
personali, questo grido di esistenza in vita della
protagonista. Sarà per questo, che la messa
in scena è fortemente caratterizzata da un
imponente uso della rappresentazione visiva: la scenografia,
la corporeità dei personaggi, sono parte integrante
dello spettacolo. Vetrate con immagini sacre, come
nelle chiese, compaiono sullo sfondo inizialmente
nascoste da tende che vengono stracciate con taglierini
e mediante il lancio di secchiate di tintura da pareti,
che finisce inevitabilmente per imbrattare i corpi
dei protagonisti. Il malessere che a fatica si segue
attraverso la parola, emerge con evidenza attraverso
l’immagine.
Una nota: pur concordando con Voltaire nel fare l’elogio
della brevità, pensiamo tuttavia che la scelta,
da parte dello spettatore, di andare a teatro meriti
un periodo un po’ più lungo di 30 soli
minuti di rappresentazione. [marina
viola]