Messi
in soffitta gli abiti dai ricami preziosi e le candide
parrucche ricciolute, segno distintivo del secolo
di Luigi XIV del quale Molière fu interprete
critico per eccellenza, Gabriele Lavia porta in scena
una rilettura del “Malato
immaginario”, in cui la satira della
medicina e in senso più ampio di un potere
ignorante che opprime e tiranneggia, si gioca all’interno
di un salone ampio ed essenziale. Un’enorme
scacchiera sulla quale l’ossessione della morte
non smette mai di volteggiare.
È
in questo spazio disadorno che Argante (Gabriele Lavia),
credendosi vittima dei morbi più spaventevoli,
si divide fra il letto, la scrivania e il gabinetto
a vista in cui lo conducono le purghe e i clisteri
che gli vengono somministrati, con interessata cura,
dai dottori Purgone, Diarreus e Fetus. Questi ultimi,
con le loro figure grottesche e rivoltanti e l'incedere
su tacchi da donna, come in un incubo incessante,
rappresentano la mostruosità di quel potere
al quale il protagonista non è in grado di
opporsi. All’affetto sincero della figlia Angelica
(la diciottenne Lucia Lavia, al debutto), segretamente
innamorata di Cleante (Andrea Macaluso), ma promessa
sposa al dottor Diarreus figlio (Michele Demaria),
fa da contraltare la cupidigia della giovane moglie
Belinda (Giulia Giuliani), che si muove in scena seminuda
dispensando al marito (e all’occorrenza all’amante
notaio) effusioni lascive. In questo gioco di specchi
contrapposti, ma anche oscuri e deformanti come quelli
enormi che campeggiano in scena, Argante riesce a
ribellarsi, seppure flebilmente, agli “ordini
della medicina”. Ma, a differenza della versione
classica, il protagonista continua ad aggirarsi nella
sua stanza solitario e invecchiato, in preda ad un’ipocondria
che prelude al crollo finale.
La
rilettura che Lavia offre del testamento artistico
di Molière è mirabile, brilla per i
numerosi riferimenti al teatro di Samuel Beckett:
l’architettura interiore del protagonista prende
forma attraverso i pensieri malinconici di “Malone
muore” relegati, assieme alle ricette e alle
diagnosi mediche, all’interno di un registratore
come ne “L’ultimo nastro di Krapp”.
Da segnalare la prova corale degli interpreti, abili
nel muoversi in scena in una sorta di interminabile
girotondo, come le nude marionette del teatro dell’assurdo.
[valerio refat]