Tre
lunghe panche – una posta sulla linea di fondo,
le altre ai lati del palcoscenico – un tavolo,
una sedia, qualche cesto di frutta e verdure: la scena,
immersa in una luce soffusa, sembra ricordare i quadretti
realistici del Goldoni librettista.
Pietro Carriglio circoscrive così la sua “Locandiera”,
in un’atmosfera dai colori tenui, sfumati grazie
alla presenza di un velatino che smorza le luci taglienti
di Gigi Saccomandi. Nella cornice di un quadro curato
nei minimi dettagli dal regista, che è anche
scenografo e costumista, Galatea Ranzi si muove a
suo agio. La sua è un’interpretazione
di maniera, ma convincente: le stoccate sono precise,
i finti tentennamenti di fronte ai doni degli insistenti
corteggiatori hanno un’asprezza e insieme un
candore che solo un’attrice di un certo livello
riesce a raggiungere. A fare da contraltare, la bravura
di Luca Lazzareschi, un altezzoso e poi innamorato
Cavaliere di Ripafratta, un solitario più per
principio che per filosofia, dotato di ottimi tempi
e profonda intenzione, che ruba senza difficoltà
la scena ai colleghi.
La storia di Mirandolina è l’occasione
colta da Carriglio per liberare la commedia dagli
stereotipi del “goldonismo”, focalizzando
l’attenzione sul meccanismo teatrale dell’opera,
su alcuni aspetti tradizionalmente poco analizzati
del testo come un’inedita caratterizzazione
del personaggio della Locandiera e sull’impianto
figurativo, che richiama i dipinti del Tiepolo e di
altri pittori del Settecento. Sono sufficienti pochi
cenni musicali, curati da Matteo D’Amico, in
alcune scene trattenuti nella scatola di un carillon,
per addolcire la filastrocca della seduzione recitata
dalla locandiera che, con armi unicamente femminili,
riesce a conquistare il cuore del misogino Cavaliere
di Ripafratta.
Sul palco anche il sicuro Nello Mascia nei panni del
Marchese di Forlipopoli e Sergio Basile in quelli
del Conte d’Albafiorita, che si contendono a
suon di regali il cuore di Mirandolina. L’unico
a spuntarla sarà però Fabrizio interpretato
dal bravo Luciano Roman. Da questo punto è
come se il processo avesse ripreso il suo naturale
corso: tutto è a posto e, nel finale, gli interpreti
si allineano verso il fondo, dando le spalle alla
platea, in una citazione dei quadri di Tiepolo. L’ordine
è stato ripristinato e il sipario può
calare. [patrizia vitrugno]