Si
carica d’intensa commozione una sedia sul palcoscenico
vuoto. L’aria immobile, il silenzio assoluto,
l’odore delle tavole del palco e una luce fioca
ad inondare di sacralità il profilo di un corpo
femminile martoriato, avvilito, usurpato dagli sguardi
maschili in cui rivivono interni dolorosi d’inizio
Novecento, ambienti di una società paesana
violenta, tribolazioni di un Sud arretrato e opprimente.
Su una seggiola la posa composta e dimessa di una
figura sottile che veste una camicia da notte velando
abiti maschili. Mani sottili e ginocchia raccolte
arredano di atmosfera modesta e sacrale rassegnazione
la storia di una ragazza ventottenne cresciuta nel
Sud degli anni Settanta tra gli sguardi maschili che
spogliano, depredano, violentano, incatenano. Vittoria,
donna-bambina, costretta in matrimonio all’età
di14 anni con un uomo “brutto e sconosciuto,
una specie di mostro” che nel suo grembo ogni
sera ricerca “la poesia d’amore”,
maldestramente celato in uno “sfogatoio sessuale”
che la renderà sette volte madre. Fino a quando,
all’ennesima gravidanza, sfinita da un’esistenza
deprezzata e anonima, Vittoria si trova braccata da
una delicata scelta. Unico atto di libertà
in un’infelice esistenza che la costringe a
macchina da riproduzione, unico gesto possibile di
ribellione all’angoscia di un’ulteriore
gravidanza è condannarsi a ricorrere ad una
terribile “mammana”. Sono gli anni Settanta,
anni dell’aborto clandestino, quelli prima della
legge 194 e della solitudine dell’aborto casalingo.
In un’atmosfera di raccolta penombra e di odori
dimenticati, la semplicità e la devozione propria
di una donna attanagliata dalla fame e dalla miseria
sono raccontate attraverso un sogno che la vedono
al cospetto di Gesù di fronte una tavola apparecchiata
per l’ultima cena.
Con la tenerezza disarmante di sempre, la graziosa
gestualità e la dolcezza di uno sguardo insieme
intimo e dischiuso verso lo spettatore, Saverio La
Ruina ritorna ad emozionare la platea romana del Teatro
India con la prima nazionale assoluta de La
Borto.
Doppio Premio Ubu 2007 con “Dissonorata”,
l’artista calabrese con la compagnia Scena Verticale
è una delle vivaci rivelazioni del teatro del
Sud, attento scrutatore delle realtà della
nostra terra e apprezzato dalla critica che lo ha
atteso nonostante la scrittura teatrale sia in un
dialetto strettissimo, come quello che si può
sentire a Castrovillari o nelle immediate vicinanze.
Se inizialmente turba la platea romana, presto la
sonorità arcaica diventa un canto dal ritmo
pacato e dalla musicalità poetica. Nenia incantevole
che rende complice lo spettatore di questo monologo
antico, ma vicino alla nostra realtà se guardando
indietro rispolveriamo i segni indelebili di rughe
e dei destini di tante donne, proprietà prima
di padri e poi di mariti, che all’annuncio di
una gravidanza problematica si sono sentite rispondere
“Arràngiti”. Ad accompagnare l’artista,
la discrezione delle musiche di Gianfranco De Franco
eseguite dal vivo. [alice
piano]