A
distanza di cinque anni il regista Gabriele Linari
e la sua compagnia LABit tornano ad indagare l’universo
di Franz Kafka. Dopo Lettera
al padre, adesso è la volta di uno spettacolo
che riassume in toto l’universo kafkiano, prendendo
spunto dai racconti e dai diari dello scrittore ceco.
Mentre il primo era un monologo del regista, in questo
Linari lascia spazio a tre attori.
Lo spettacolo è diviso in otto scene che risaltano
il lavoro di ricerca della compagnia, nel quale si
percepiscono i temi propri dello scrittore praghese:
lo spaesamento e l’alienazione dell’individuo,
il paradosso e l’angoscia delle situazioni.
Le scene, che spaziano dal monologo al teatro-danza,
hanno l’unico difetto di essere scollegate tra
loro, senza riuscire a coinvolgere del tutto lo spettatore
in un continuum drammaturgico.
Per il resto, alcuni momenti sono realmente poetici:
in particolare la danza a tre con i giochi di braccia
che sembrano avvolgere gli spettatori e la scena dei
tavoli, sopra ai quali mani ansiose si rincorrono
e si scontrano. In questi due momenti, sottolineati
dagli applausi del pubblico, le luci integrano i movimenti
degli attori creando atmosfere davvero kafkiane. C’è
da dire che questo successo delle luci non permane
per tutto lo spettacolo: sia all’inizio che
alla fine, la scena è avvolta da una specie
di penombra che non aiuta ad esaltare i gesti e i
volti.
Tra gli attori emerge per credibilità e potenza
scenica Simona Forlani, che attraverso una presenza
affannata ed erotica e i movimenti ginnici e isterici
delle gambe, della testa e delle braccia, richiama
puntualmente l’opera di Egon Schiele. Le donne
dipinte dall’artista austriaco sono infatti
l’altro riferimento per il regista, che ha così
trovato un alter ego visivo a Franz Kafka. Schiele
e Kafka come ispirazione colta di uno spettacolo che
riesce, soprattutto nel finale (quando vengono affrontate
due delle opere più importanti dello scrittore
ovvero Il processo e
La tana), a far rivivere
il disagio interiore dell’uomo europeo di inizio
secolo prossimo alle sciagure del nazismo e della
guerra.
[simone pacini]