Un
classico di Eduardo De Filippo, Io,
l'erede, e’ una commedia scritta
in napoletano nel 1942 e riscritta "in lingua"
nel 1968, che Andrée Ruth Shammah ripropone accentuandone
il lato umoristico-sarcastico in perfetto stile pirandelliano.
Ispirata a un “fatterello” autobiografico
è, una disquisizione sulla carità pelosa,
sui suoi effetti e le reali motivazioni, che secondo
Eduardo hanno ben poco di cristiano.
La beneficenza, in questo caso, fa bene soltanto a chi
la fa mentre priva i destinatari della libertà
e li rende quasi schiavi del benefattore, gravati dal
peso della riconoscenza.
Il sipario si apre sulla commemorazione funebre di Prospero
Ribera con una scenografia totalmente bianca, minimalista,
piuttosto surreale che riproduce l’interno di
una casa patrizia.
Riunita attorno ad un tavolo, la famiglia Selciano che,
ricordando il caro estinto che per 37 anni hanno mantenuto
nella loro casa come ospite fisso, si gloria e si compiace
della propria generosità.
Ma improvvisamente a turbare il quadretto familiare
arriva dal nulla l’inquietante figlio del defunto,
il quale reclama per sé il posto del padre affermando
che tutto si può ereditare, anche il ruolo di
beneficato.
La tesi pur se paradossale è sostenuta in modo
talmente forte e coerente da riuscire a smascherare
il buonismo ipocrita della società perbene, di
cui i Selciano sono l’emblema.
Nel cast il bravissimo Geppy Gleijeses come “l'erede”
del titolo, affiancato da un convincente Umberto Bellissimo,
capofamiglia dei Selciano e figlio del benefattore e
da Leopoldo Mastelloni che scava nel profondo il personaggio
di zia Dorotea.
Una commedia amara, rappresentata in modo asettico attraverso
una recitazione quasi mimica, che rende il tutto poco
coinvolgente e distante.
[vanessa menicucci] |
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