E'
una scenografia scarna e una luce bianca, ospedaliera,
ad offrirsi allo spettatore appena iniziate Le
invasioni barbariche, adattamento teatrale del
pluripremiato film di Denys Arcand, al Teatro Vittoria
di Roma fino al 3 febbraio.
Attilio Corsini è un convincente Remy, professore
colto e amante delle donne, che scopre di avere il cancro.
In ospedale è solo, abbandonato da tutti, tranne
qualche amante che lo tormenta per il suo libertinaggio
giovanile. Solo grazie all’interessamento della
sua ex moglie, si stringono al suo capezzale il figlio,
capitalista di successo, e i vecchi amici.
Lentamente, col procedere della storia, le luci si ammorbidiscono
e il bianco luttuoso che accoglie i pazienti della sanità
pubblica si trasforma nella tinta elegante dei divani
di pelle che il figlio fa sistemare nella stanza a pagamento.
Tra pannelli mobili, che rendono la scena in continuo
movimento, e filmati, proiettati a gettar luce nell’io
profondo del protagonista, del suo passato, dei suoi
sogni, delle sue paure, la storia procede leggera verso
l’ineluttabile finale: un’ultima cena a
cui tutti i personaggi partecipano, in un turbinio di
colori sgargianti e frizzanti dialoghi, a salutare Remy.
I nuovi barbari, di cui il figlio costantemente attaccato
al cellulare è un esemplare, hanno vinto; la
nuova civiltà sta spazzando via la vecchia e
Remy, che come i suoi amici ha creduto nelle ideologie
novecentesche, che al computer risponde leggendo un
libro, dopo una vita trascorsa combattendo con la cultura
chi voleva imbarbarire il mondo, deve piegarsi ai soldi
del figlio, ad attendere una mail della figlia in viaggio
nel Pacifico, a riconoscere che i suoi vizi e i suoi
eccessi hanno tenuto lontano tutti i suoi affetti.
Cinico e drammatico, lo spettacolo tocca le corde della
commozione, ma non si dimentica che anche nei momenti
più cupi basta una frase per far sorridere. Tratta
argomenti attuali come quello della droga, da usare
per fini terapeutici, dell’eutanasia, della corruzione
e della mala sanità, eppure, malgrado la tristezza
che accompagna la fine, è un canto alla vita
stessa e un inno alla giovinezza.
Un’ora e mezza di sferzanti battute sulla ferocia
del genere umano, sull’imbarbarimento del nostro
tempo, sull’insofferenza di chi avrebbe voluto
costruire un mondo migliore, e insieme un atto d’amore
nei confronti della vita per uno spettacolo che il regista
voleva di una leggerezza e un’ironia degna di
Cechov. Applausi ad Attilio Corsini, che circondato
da ottimi attori, è riuscito nel suo intento.
[francesca romana buffetti] |
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