“L'importanza
di chiamarsi Ernesto” di Oscar
Wilde, che nella traduzione italiana - ad opera di
Masolina D'Amico - perde la duplice valenza di Earnest
(nome proprio ma anche aggettivo con significato di
“serio, coscienzioso” quindi esattamente
l'opposto dei comportamenti dei protagonisti), viene
definita come «la commedia perfetta» nonché
l'ultima scritta. La commedia della parola, dei paradossi,
di un umorismo fine ed inesorabile a cui è
difficile sottrarsi.
«Dovremmo
trattare molto seriamente tutte le cose frivole e
con sincera e studiata frivolezza tutte le cose serie
della vita». Così Wilde riassumeva in
poche e sferzanti parole la vicenda.
Di
fronte ad un tale meccanismo linguistico e scenico
(poche, puntali e precise le entrate e uscite sul
palco), il rischio maggiore è di strafare,
puntando ad una recitazione che colori ulteriormente
l'umorismo, oscurando così con l'ecclettismo
attoriale il testo.
Tutti
pericoli che il nuovo allestimento curato da Geppy
Gleijeses (anche nel ruolo del protagonista Jack Worthing)
al Teatro Quirino di Roma, riesce ad evitare con leggerezza
e spensieratezza. A partire dalle scene sobrie, mai
invadenti e funzionali alla commedia, fino alla recitazione
dello stesso Gleijeses accompagnato dalla convincente
Marianella Bargilli nel ruolo maschile di Algernon
Moncrfeff e della strepitosa Lucia Poli nel ruolo
di Lady Bracknell, che non appena entra in scena illumina
di una luce speciale lo spettacolo.
La commedia scivola leggera,
con seriosa frivolezza, tra malati immaginari, fratelli
defunti e improvvisamente resuscitati, Ernesti che
vengono ed Ernesti che vanno; Wilde tra risate e battute
folgoranti, critica e colpisce la società aristocratica
del tempo basata sull'apparenza più che sulla
sostanza... Critica che veste panni di assoluta attualità.
Alla
fine applausi scroscianti per tutti, per una boccata
di ottimo teatro. Chapeau!
[fabio melandri]