«Avere
la debolezza di un uomo e la tranquillità di
un dio», conclude Leone Gala (Umberto Orsini),
rimanendo sulla sedia a rotelle in mezzo ad una scena
cupa, che si lascia spegnere sulle note macabre di
una marcia funebre. Così cala il sipario sulla
vicenda grottesca e passiva di Leone, della moglie
Silia (Alvia Reale) e di Guido Venanzi (Michele Di
Mauro) suo amante. Nella riscrittura del regista Roberto
Valerio “Il giuoco
delle parti” di Luigi Pirandello,
il protagonista Leone è immerso nei propri
ricordi, rinchiuso in una stanza spoglia - una clinica
forse, forse un manicomio -, dove i pensieri che hanno
costruito e distrutto la sua vita coniugale riprendono
corpo. Leone ha una passione maniacale per l’arte
culinaria, è saggio, quasi un filosofo, un
personaggio cinico e freddo che la moglie Silia mal
sopporta, tanto da desiderarlo morto. Per questo vuole
convincere Guido ad ucciderlo.
Non si tratta del classico
“triangolo”, Pirandello già nel
1918 ne manipolò il senso, stravolgendo i caratteri
principi dei personaggi, trovando in Leone la traduzione
del fallimento della borghesia dell’epoca, così
come il fallimento e l’indifferenza dei nostri
tempi. Una vicissitudine complessa, i cui personaggi
sono la perfetta antitesi dei sentimenti. Leone ha
già vissuto i tradimenti della moglie, li ripercorre
ogni volta che torna indietro con i pensieri, ma nonostante
questo non ne prova gelosia. Silia non lo ama, ma
continua ad arrabbiarsi per lui, e Guido la vittima
assoluta, supera i propri sentimenti acconsentendo
al tragico epilogo. La cornice scenografica è
la declinazione calzante della storia, ne è
simbolo, è un’ulteriore riscrittura dell’opera.
La scena si muove con i cambi e le luci, si divide
tra il salotto di casa Gala e la stanza asettica dove
Leone è visitato dal medico (Flavio Bonacci).
Il letto composto, pulito in ferro a simboleggiare
l’oblio, la lontananza, ma anche l’alcova
degli amanti. Tutto è bianco: le seggiole,
il lampadario, le vetrate, il cappello da cuoco di
Leone, tutto sembra essere immacolato, tranne le intenzioni,
le congetture. In questo labirinto crudele di taciti
accordi gli attori raggiungono un’elevatezza
silenziosa.
Orsini
è composto, come il suo personaggio, ha parole
pacate, beffarde, il suo è un andamento regale
come se si innalzasse dall’ordinaria irritazione
della moglie, che è infuocata come i suoi abiti,
colma di passione e di morte. Bravissima la Reale
che con un ruolo così affascinante e miserabile
ha impersonificato il ruolo di Silia con notevole
disinvoltura. Come del resto De Mauro, sconfitto fin
dall’inizio, disarmato fra le storture dei due
coniugi. Meno bravo il pubblico che non ha colto la
sottigliezza di questa variante, così introspettiva
che guarda alle ossessioni interiori di un uomo indolente.
Il pubblico si è stancato, si è annoiato
e ha disturbato con reclami ad alta voce, chi la voce
doveva tener bassa.
[serena
giorgi]