Spettacolo
insolito quello in scena fino 21 dicembre al Piccolo
Eliseo, non solo per gli interpreti (la compagnia
è formata da ex detenuti del carcere di Rebibbia),
ma soprattutto per l’intenzione. Vedendo Gadda
Vs Genet si ha la sensazione che il regista
abbia voluto lanciare in platea una corda con un’esca
in cima e poi abbia cominciato a ritirarla verso di
sé, catturando così l’attenzione
del pubblico.
L’avvio è incerto. Sembra uno spettacolo
comico, con gli attori che ostentano disinvoltura
con il pubblico, creando un continuo gioco meta-teatrale
dentro e fuori il palco. Poi, lentamente, la struttura
si delinea, la recitazione si raffina e diventa meno
farsesca. Gli spettatori sono aiutati a comprendere
il testo attraverso una serie di monologhi, che mantengono
un tono a metà tra ilarità e riflessione.
Il secondo atto, poi, è un pugno nello stomaco,
grazie soprattutto alla scelta di un breve componimento
tratto da Jean Genet.
La rappresentazione dà risalto all’interprete,
all’autore e al percorso delineato dal regista
durante tutto il primo atto: attirare l’attenzione
usando lazzi e considerazioni, per portare l’uditorio
a seguire attentamente il contraddittorio - palesato
solo in un secondo tempo - fra Carlo Emilio Gadda
e Jean Genet. È in questa fare che Fabio Cavalli
rivela il significato semplice e crudo della pièce,
anche rispetto a chi e cosa sono stati e sono realmente
gli attori che il pubblico si trova davanti. Non semplicemente
“ex galeotti”, ma interpreti coscienti
di cosa sia un Percorso.
Uno sforzo notevole, che sfrutta al meglio le caratteristiche
degli interpreti e porta il livello d’attenzione
sempre più in alto, concedendo al pubblico
persino il tempo di dimenticarsi della particolarità
della compagnia, per concentrarsi su quale sia l’argomento
in discussione nella drammaturgia presentata.
[jacopo angiolini]