Dopo più di diciannove anni trascorsi in Francia,
Gloria Paris torna in Italia. Dopo “aver preso
le distanze” dalle proprie origini si trova a
riscoprirsi sul palcoscenico del Valle di Roma nella
sua voce più autentica e celata di donna, anzi
di tutte le donne che è stata finora. Quelle
che l’hanno fatta fuggire. Quelle che porta ancora
con sé, suo malgrado. Quelle che oggi trovano
una forma compiuta in “Filumena Maturano”,
una delle opere e “creature” più
care di Edoardo De Filippo in fondo mai realmente tradita
dalla traduzione dello scrittore Fabrice Melquiot che
riesce a conservare del testo l’originale forza
e malinconia, tristezza ed riso.
In una lingua aspra, concisa, incisiva, tutta legata
all’interpretazione dell’attore - in una
tensione emotiva continua solo a tratti spezzata dal
vento della commedia - si gioca la partita più
importante dell’amore: quella della verità.
Sono gli attori – e prima fra tutti è Christine
Gagnieux - a rendere universale Eduardo oltre il francese,
che finisce per farsi comprendere senza parole, nel
semplice e insieme irruente disvelarsi di un suono,
di un sentimento. I protagonisti sono capaci di arricchire
i personaggi grazie alla loro personalità forte,
con un’interpretazione che riesce a superare ciò
che è scritto, portandosi dietro un pezzo di
storia del teatro francese.
La messa in scena si affida a pochi ma fortemente connotativi
elementi, in grado di creare con la loro essenzialità
il ventre – proprio come quello di una madre -
in cui confinare e proteggere i conflitti familiari
più segreti, il bisogno di appartenenza, la ricerca
di una paternità necessaria, nel tentativo coraggioso
e tutto materno di ricucire le fratture. Il palcoscenico
diventa un quadro, l’occhio fisso di un interno
borghese napoletano anni Cinquanta “guardato alla
lente d’ingrandimento” che rileva con minuzia
l’ingranaggio di una vita di coppia. A prevalere
non è, dunque, uno spazio preciso, definito in
quanto tale, piuttosto la sua idea, il suo concetto
pronto ad aderire alla realtà e subito dopo sfuggirne
come fanno i protagonisti. E così, mentre le
pareti si dissolvono, i muri si aprono a Napoli, testimone
e giudice silenziosa di tutta l’azione. Le tavole
del palco diventano, così, un’arena in
cui si sbrana la carne dei giorni, in un susseguirsi
di confessioni calibrate sulla ricerca dichiarata di
teatralità nei gesti, nei movimenti, nel bianco
e nero del sentire. Sempre nitido, sempre chiaro. [s.
pisu] |
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