La
bellezza sta nel darsi. Senza orpelli, con una scenografia
essenziale, musica dal vivo, pareti bianche, Pierrot
o Pulcinella vestito di bianco come unico protagonista
del palcoscenico. Un bianco che costringe lo spettatore
a fare i conti con se stesso, inchiodato alla stessa
sedia a rotelle dell'attore in scena. Che sia la metafora
della frustrazione, dei limiti della condizione umana?
Un’attrice che si dà, scende tra il pubblico,
recita l’attore e i suoi personaggi. Che usa
il suo corpo in tutte le variazioni musicali: teso,
vicino, lontano, morbido, sinuoso. Nervoso come un
arco che scocca le frecce sul pubblico e lo strega.
Magia del teatro.
Anna Mazzamauro è un attore frustrato che recita
quello che non è stato: un re sulla scena,
non ha interpretato Riccardo III, non è stato
ricambiato dall’amore di Sophie, la figlia dell’impresario,
che gli ha preferito un attore protagonista, il gendarme.
Eppure quella negazione è forte, riempie la
scena, attanaglia lo spettatore. Forse risiede nella
magia di una grande attrice, nella regia armoniosa
e lieve, nella musica timida che aspetta che il personaggio
interpreti la sua follia. Il pubblico è lì
che attende che qualcosa accada, aspettando Godot,
ma Godot non arriva. Quello che doveva accadere è
già accaduto, resta la frustrazione e la malinconia.
Restano i versi di Shakespeare che il folle può
recitare per riprendersi una vita che non ha rispettato
le sue promesse e le sue illusioni.
Uno spettacolo che non ha un genere, è tutt’uno
con l’attrice, l’attore, il personaggio.
È un'immersione totale nell’umanità.
Forte e senza fiato.
[deborah ferrucci]