Con
“Delitto & Castigo”
Francesco Giuffrè analizza le parti più
profonde dell’animo umano. Nell’ombra
perenne della scena, gli attori sono disposti lungo
i tre lati del palco e, sulle loro teste, i nomi dei
personaggi, quasi fossero degli epitaffi. Al centro
il protagonista Raskolnikov, punto di congiunzione
di un dramma sviluppato in modo corale. Se non fosse
per la collocazione sul palco, di certo non ci si
accorgerebbe della sua importanza o del suo peso nell’evoluzione
della storia. Il regista mette a punto uno spettacolo
che si stacca dalla centralità del protagonista,
quasi a prenderne le distanze per raccontare di lui
attraverso i personaggi secondari. Alfredo Angelici
è di conseguenza, un Raskolnikov dimesso, quasi
inesistente, una maschera immobile e scarsamente comunicativa.
Il delitto compiuto, ovvero l’omicidio della
vecchia usuraia, è il culmine di un climax
al quale concorrono tutti i personaggi: da Sonja Marmeladovna
costretta a prostituirsi per mantenere fratelli e
padre ubriacone, a Dunja, sorella di Raskolnilkov,
che prima accetta e poi rifugge il matrimonio di convenienza
con Luzin. A dominare la scena, sullo sfondo, una
croce in legno di volta in volta venerata, deprecata
o, all’occorrenza, spinta in un andirivieni
a ricordare i rintocchi di una pendola.
I personaggi si muovono su due piani, orizzontalmente
e verticalmente, a seconda che i rapporti siano di
uguaglianza o di disparità. Nessuno degli attori
riesce ad emergere: vengono messe da parte le personalità
in favore di una coralità che, però,
non dà allo spettacolo quella compattezza e
quel collante che una storia del genere necessita.
Giuffrè connota, infatti, lo spettacolo di
una pesantezza che allontana bruscamente dalla leggera
poesia del testo di Dostoevskij. Le atmosfere cupe
raccontate dallo scrittore russo, sono distanti da
questa messinscena che risulta, invece, confusa e
poco evocativa.
[patrizia vitrugno]