Tre coppie mal
assortite s’incontrano in tre occasioni per
festeggiare (rovinosamente) il Capodanno; per tre
anni si ritrovano nella cucina di tre differenti case,
frugando nell’intimità dei personaggi
e negli aspetti più privati della dinamiche
di relazione. “Danni
a Capodanno” illustra con sadico
cinismo come si trasformano le coppie e i rapporti
fra di esse.
Alan Ayckbourn
scrive la pièce con l’abituale stile
cinico e iperrealista, mettendo in scena tre coppie
borghesi di varia estrazione, apparentemente normali,
ma in realtà pervase da tensioni più
o meno apparenti. Ogni scena ha protagonista la coppia
ospite, che attende e gestisce i convenuti con retroscena
giocati tra il comico, il drammatico e il surreale;
la presenza degli invitati scatena e amplifica le
tensioni interne, manifestando l’insufficienza
emotiva dei singoli ed evidenziandone le nevrosi.
Ma non è solo gioco tra accoppiati; nel corso
dell’azione scenica è l’intera
società con i suoi schemi perbenisti e formali
a venir in crisi, per riassestarsi solo alla fine,
con ruoli scambiati. I meno abbienti, preoccupati
di riuscire graditi agli invitati di riguardo, alla
fine risultano dominatori della scena grazie alla
scalata sociale ed economica conseguita anche a spese
delle altre coppie.
Il tutto finisce
in uno stralunato, farsesco balletto di penitenze.
Uno spettacolo
di questo tipo impone una presa registica e attoriale
fermissima, per evitare che i caratteri dei personaggi
tracimino nella caricatura; invece la regia indulge
troppo nel lasciar mano libera alle caratterizzazioni
degli attori, a tratti incapaci di frenarsi per far
filtrare le proprie tensioni sotto la maschera imposta
dalla società. Il miglior equilibrio è
nella seconda scena, con la coppia più statica
e in fin dei conti emarginata: Eva tenta inutilmente
il suicidio e l’esuberanza degli altri compone
un efficace caleidoscopio di situazioni stravaganti,
con un risultato di efficacia quasi onirica.
[marisa retica, massimo stinco]