Cinque
atti unici connessi da un sottile filo conduttore per
la caustica commedia di Alan Ayckburn, già conosciuto
come autore di “Camere
da letto”. Ogni atto, interpretato
da cinque attori impegnati in una girandola di ruoli
e situazioni, si focalizza su uno stato d’animo
che pervade i protagonisti spingendoli a comportamenti
di volta in volta ipocriti, comici, drammatici e grotteschi.
“Solitudine”
mette in scena una casalinga disperata, vittima delle
assenze del marito e delle intemperanze dei figli
(veri o immaginari), che irrigidisce se stessa nel
ruolo assegnatole dalla sorte, estendendone le conseguenze
a due malcapitati vicini di casa. Il secondo atto,
“Ossessione”,
vede all’opera il marito della casalinga, trasfertista
altrettanto squassato dalla propria squallida condizione
di lavoratore fuori casa. L’occasione è
data da due belle ragazze ospiti dell’hotel,
che l’uomo prova a circuire, con l’aiuto
di generose quantità di alcol somministrate
da un cameriere, sornione testimone dell’improbabile
prestazione amorosa, destinata a naufragare nei fumi
dell’alcol. In “Imbarazzo”
il cameriere diviene un maître, francese o presunto
tale, che prova a soddisfare due coppie di clienti
legate da una situazione imbarazzante. Le turbe e
i litigi sono alternativamente focalizzati e sfumati
dalle oscillazioni del maître che provvede alle
ordinazioni, cerca di infilarsi tra una sfuriata e
una confessione, insinua le portate tra braccia che
si dimenano e porge domande di prammatica a donne
in lacrime e mariti infuriati.
“Narcisismo”
vede i cinque impegnati nel ricreare l’atmosfera
che precede un tipico avvenimento mondano della countryside
britannica (una festa di beneficienza parrocchiale
), con l’armamentario di dame di buon cuore,
curati di campagna, boy scout, volontari di dubbia
capacità e beghine dall’incerta virtù.
L’ultimo atto (“Incomunicabilità”),
mostra i nostri in un parco pubblico, mentre cercano
alternativamente di sfuggire e di comunicare con gli
altri.
Il
testo stigmatizza gli aspetti deteriori di certa borghesia
britannica (e non solo) con arguzia e humour, a volte
salace, a tratti esilarante (soprattutto nel quarto).
L’autore indaga l’animo umano con efficacia
e strumenti affilati. Il ritratto che ne emerge non
è confortante; l’uomo moderno è
condannato a un solipsismo parossistico, con le turbe
che prendono il sopravvento fino a contagiare il prossimo.
Non a caso nell’ultimo atto i personaggi sono
una replica dello stesso prototipo: l’individualista
autoreferente.
Alessandro
Londei dirige con mano sicura, ritmo efficace e misura
adeguata ai difficili equilibri del testo, evitando
di precipitarlo in farsa o, di converso, di irrigidirlo
nello schematismo dei ruoli. Interessante la scelta
dei cambi scena eseguiti a vista, in una sorta di
balletto che ben amalgama i diversi quadri, aiutato
dalle essenziali ma efficaci scene di Fulvio Ferrara.
Lo spettacolo è essenzialmente un banco di
prova e gli interpreti dimostrano la loro bravura:
recitano con misura e presenza scenica dove richiesto
e si scatenano nel quarto quadro, dove si divertono
almeno quanto il pubblico. Applausi finali meritati.
[massimo
stinco]