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Autore:
Matei Visniec |
Adattamento:
Sergio Claudio Perroni |
Regia:
Gianpiero Borgia |
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Scene:
Giuseppe Andolfo
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Costumi:
Giuseppe Avallone |
Luci:
Franco Buzzanca |
Musica:
Papaceccio M.C. e Francesco Santalucia |
Produzione:
Teatro Stabile di Catania |
Interpreti:
Angelo Tosto, Gianpiero Borgia, Annalisa Canfora, Christian
Di Domenico, Giovanni Guardiano, Camillo Mascolino, Daniele
Nuccetelli, Alessandra Barbagallo, Giorgia D’Acquisto,
Salvo Disca, Marzia Longo, Chiara Seminara |
Anno
di produzione:
2010 |
Genere:
dramma |
In
scena: fino al 9 maggio al Teatro
Valle di Roma
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Come
spiegare la storia del Comunismo ai malati di mente?
Ci pensa un testo del rumeno Matei Visniec, così
intitolato e affidato alla regia di Gianpiero Borgia.
Siamo a Mosca nell’anno della morte di Stalin,
il 1953. All’interno di un manicomio lo strambo
direttore vuole ricorrere a una cura “rivoluzionaria”
per i degenti: raccontare loro la storia del comunismo.
Affida la missione a Juri Petrovski, pluridecorato
poeta del Soviet, che giorno dopo giorno si lega sempre
più ai malati, finendo per diventare un pericoloso
dissidente, additato come sabotatore della rivoluzione.
Le
note di regia e l’autore del testo (drammaturgo,
poeta e giornalista vissuto nella Romania di Ceausescu
dove la censura reprimeva qualunque forma artistica
lontana dai canoni del regime), lasciavano ben sperare
che nell’allestimento fossero incluse idee di
qualche tipo. In realtà lo spettacolo delude
per mancanza di incisività, per scarso coraggio
nella riproposizione di una tematica così delicata
ma affascinante come quella del mondo visionario e
allucinato dei malati di mente. I “matti”
che popolano l’ospedale sono scarsamente caratterizzati:
tra di essi spicca – di certo non per originalità
– la figura del pilota di aeroplani che, con
il suo “clic, clac, plouf!” diventa il
filo conduttore dell’intera pièce e un
po’ il simbolo dell’ineluttabilità
del fato.
L’ospedale
è un luogo sinistro e grottesco, abitato da
strane figure: medici che idolatrano Stalin e pazienti
divisi in categorie a seconda delle gravità
del disagio mentale. Il giovane poeta è affiancato
giorno per giorno da Katia, una bizzarra infermiera
che intrattiene rapporti sessuali con chiunque, persino
tra i pazienti, abbia conosciuto il grande Stalin.
Sulla scena i malati di mente sono rinchiusi dietro
sbarre moventi che di volta in volta delimitano gli
spazi ad essi dedicati. Nella vita del manicomio la
realtà è ribaltata e finisce per influenzare
anche la visione di Petrovski. Una notte, infatti,
Timofei, uno dei malati gravi, entra nella sua stanza
da letto e lo invita a partecipare a una festa nella
zona franca dell’ospedale, dove sono confinati
e nascosti i compagni che si trovano in regime di
isolamento. Il giovane scrittore si troverà
nel bel mezzo di un allegro Soviet in camicia di forza,
durante il quale i matti inneggiano alla “vera”
Rivoluzione. Juri, indossando una camicia di forza
onoraria, entra definitivamente nel cuore dei malati.
Dovrà però a breve tradire la loro fiducia,
nel giorno della morte di Stalin, quando per evitare
una sommossa, accetta l’ordine di tenere loro
nascosta la scomparsa del Dittatore.
Nei due atti il testo perde corpo, fino a trascinarsi
meccanicamente nel finale dove non accade nulla che
non sia prevedibile. Logica conclusione per una pièce
che inneggia alla pericolosità dell’ideologia,
ma che dell’ideologia ha perso il principio
ispiratore.
[patrizia vitrugno]
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