Tratto dall’opera
incompiuta di Franz Kafka “Il castello”,
pubblicata nel 1926, l’adattamento teatrale
di Massimo Roberto Beato ben trasmette lo spirito
caustico, al limite del grottesco, dell’autore
praghese. La storia racconta che in un villaggio,
alla locanda del Ponte giunge lo “straniero”
K., assunto come agrimensore dal conte del castello;
eppure l’incontro di K. con il conte/datore
di lavoro non avverrò mai, a causa di una montagna
di burocrazia cartacea e di gerarchia umana: il sindaco,
Klamm e gli osti. Gli attori nella scena iniziale
si muovono con la stessa lentezza e ripetitività
delle statuine di un orologio a cucù, metafora
di persone guidate da un sistema di regole, che generano
regole per la sicurezza di altre regole, gestite da
persone preoccupate dalle regole… Siamo di fronte
all’assurdità del Sistema.
K. rappresenta la ricerca
della realtà e della verità, che naufraga
inevitabilmente di fronte al muro di gomma della rassicurante
burocrazia, che garantisce l’ordine ma allontana
l’essere umano da se stesso. Si può rinunciare
alla propria essenza per la sicurezza? Come l’opera
di Kafka è incompiuta, così irrisolto
è il dilemma umano. Lo spettacolo è
corale, forte nelle atmosfere, nelle suggestioni,
nel non detto, nel potere invisibile che incombe.
Il paradosso diventa gesto scenico nei fogli bianchi
lanciati da un balcone, senza scritte, ma che l’agrimensore
si precipita a raccogliere per aggrapparsi almeno
ad uno straccio di verità.
Non c’è un
attore che emerga sugli altri, sono tutti immersi
nel loro ruolo, contaminati l’uno dal testo
dell’altro. Tutti presenti nel corpo, nello
sguardo, nella presenza scenica, senza distrazioni
(compito non facile nello spazio scenico senza parete
di Stanze Segrete). La regia di Jacopo Bezzi trasforma
il romanzo in gesti e sguardi alienati, sottolineati
dal trucco zombie, mentre la musica inquietante sottolinea
una dimensione di altrove, che cattura lo spettatore
senza lasciarlo mai.
Il pubblico è
così partecipe, che a fine spettacolo porta
con sé la liberazione dall’angoscia e
la consapevolezza di cosa sia l’alienazione.
[deborah ferrucci]